il tonfo fisico (dell’umore pesante). l’umana pochezza che prende coscienza di ciò che resta (“polverizzato”) in testa… come una fuga (siamo in testa!) – eh, questa me la segno per neurodeliriche future, se mai ce ne saranno – quasi la consistenza tattile di un’ombra (di cui si possa percepire l’orlo, il margine “concreto”, saggiandolo coi polpastrelli). tanto che quando “inizia a piovere” può essere che il nero slavi e spanda tipo una sagoma d’inchiostro. chissà. magari è tutta un’allucinazione ricorsiva che insegue se stessa (“richiedersi lasciare fuori”). forse per questo, rileggendo, mi ha colto addirittura una vertigine: “osservi il resto *dallo* spazio”…
insomma, davvero leggere poesie di Maurizio rende sensibilissimi i sensi (in ogni senso) e mi ritrovo ad imboccare di parole “i vuoti d’aria” per alimentare direzioni del significato (nonché per dare consistenza fisica, mimica, o forse “muscolare” anche al dolore). eh, d’altro canto si sa che il pensiero non sempre “sfila lineare” e spesso e volentieri imbocca “vicoli ciechi” (precludendosi una luce). talvolta addirittura sale dal vuoto (sulle ferite aperte) come un ronzio di fondo che giunge dall’abisso e sfuma d’eco nel vento confondendosi con altri aliti e rumori (per dirla con fascinazione quasi dylaniana, ovvero pronta a dylaniarci a tradimento “tra i denti”). comunque – e per fortuna! – si può sempre giocare la carta di provare un altro “metodo per sopravvivere” affidando al vento semiologie di vita *vissuta* da spargere nei solchi tra le righe dei versi. anche se il fatto di saper attendere un germoglio dipende in pratica da come stiamo messi, “in quanto a tempo”…
rumore fertilissimo.
Sembra la descrizione di una fine. La pesantezza che ci fa precipitare, l’arsura del « sole brucia la pellicola » mentre continua a scorrere il film della vita. Vince per ora la staticità, il finto movimento dell’ « ombra » che segue se stessa come un gatto la sua coda. Il ricordo di quando tutto era leggero e aereo. « Tutto si chiude da solo ».
Gli altri sono un negativo, passano indifferenti « a chi brucia », hanno la « strana tenerezza » che si riserva ai cadaveri. In mezzo a tanta devastazione non ci si aspettava l’ultimo verso che nasce, nonostante tutto, nell’attesa del germoglio.
Io ho percepito un bel dinamismo, un bel movimento di immagini cangianti e istantanee di pensieri che vogliono fotografare ciò che non appare, movimento nonostante sia una specie di metamorfosi o lotta tutta introspettiva che solo cautamente si affaccia all’inevitabile confronto con il mondo, per poi ritirarsi e tirare le somme. In tal senso i versi vogliono essere sottili come linee generate dal rumore della propria esistenza, affilate quanto basta per trovare l’essenziale, il compromesso vivibile, la speranza di un germoglio nell’ombra.
Noi e gli altri, la fatica del vivere. L’aspirazione al silenzio, la vita con gli altri (il rumore). Grazie Maurizio.
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il tonfo fisico (dell’umore pesante). l’umana pochezza che prende coscienza di ciò che resta (“polverizzato”) in testa… come una fuga (siamo in testa!) – eh, questa me la segno per neurodeliriche future, se mai ce ne saranno – quasi la consistenza tattile di un’ombra (di cui si possa percepire l’orlo, il margine “concreto”, saggiandolo coi polpastrelli). tanto che quando “inizia a piovere” può essere che il nero slavi e spanda tipo una sagoma d’inchiostro. chissà. magari è tutta un’allucinazione ricorsiva che insegue se stessa (“richiedersi lasciare fuori”). forse per questo, rileggendo, mi ha colto addirittura una vertigine: “osservi il resto *dallo* spazio”…
insomma, davvero leggere poesie di Maurizio rende sensibilissimi i sensi (in ogni senso) e mi ritrovo ad imboccare di parole “i vuoti d’aria” per alimentare direzioni del significato (nonché per dare consistenza fisica, mimica, o forse “muscolare” anche al dolore). eh, d’altro canto si sa che il pensiero non sempre “sfila lineare” e spesso e volentieri imbocca “vicoli ciechi” (precludendosi una luce). talvolta addirittura sale dal vuoto (sulle ferite aperte) come un ronzio di fondo che giunge dall’abisso e sfuma d’eco nel vento confondendosi con altri aliti e rumori (per dirla con fascinazione quasi dylaniana, ovvero pronta a dylaniarci a tradimento “tra i denti”). comunque – e per fortuna! – si può sempre giocare la carta di provare un altro “metodo per sopravvivere” affidando al vento semiologie di vita *vissuta* da spargere nei solchi tra le righe dei versi. anche se il fatto di saper attendere un germoglio dipende in pratica da come stiamo messi, “in quanto a tempo”…
rumore fertilissimo.
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Sembra la descrizione di una fine. La pesantezza che ci fa precipitare, l’arsura del « sole brucia la pellicola » mentre continua a scorrere il film della vita. Vince per ora la staticità, il finto movimento dell’ « ombra » che segue se stessa come un gatto la sua coda. Il ricordo di quando tutto era leggero e aereo. « Tutto si chiude da solo ».
Gli altri sono un negativo, passano indifferenti « a chi brucia », hanno la « strana tenerezza » che si riserva ai cadaveri. In mezzo a tanta devastazione non ci si aspettava l’ultimo verso che nasce, nonostante tutto, nell’attesa del germoglio.
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Io ho percepito un bel dinamismo, un bel movimento di immagini cangianti e istantanee di pensieri che vogliono fotografare ciò che non appare, movimento nonostante sia una specie di metamorfosi o lotta tutta introspettiva che solo cautamente si affaccia all’inevitabile confronto con il mondo, per poi ritirarsi e tirare le somme. In tal senso i versi vogliono essere sottili come linee generate dal rumore della propria esistenza, affilate quanto basta per trovare l’essenziale, il compromesso vivibile, la speranza di un germoglio nell’ombra.
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