“Resurgam” di Sebastiano A. Patanè Ferro

Resurgam

Catania 2018

 
-sai qualcosa, che fine avrà fatto- domando allo specchio dove c’è un niente chiaramente acquietato, forse rassegnato. -mi hai visto, mi hai parlato? che ti ho detto?-

vorrei chiudere la partita, anche se ancora non è del tutto persa, ma insiste la traccia invisibile a non cedere al ricatto del tempo, come se ci fosse via d’uscita a questo miserabile stallo: magari una mossa elusiva come moltiplicare le acque sulle quali camminare o forse, sottrarre i pesci, ma come si toglie qualcosa che non hai, sottrarre da dove? da un corpo che ti ha tradito? da un sentimento/ologramma che ti osserva tra il pietoso e il divertito da tanta creduloneria?

lei aveva chiuso tutte le porte e anche le finestre, tuttavia, non credo che stesse soffocando, neanche un po’.

per conto mio, invece, non riuscivo a credere né a convincermi che tutto quel “fuoco” si fosse spento con tanta rapidità.

il giornale riporta notizie che hanno dell’assurdo in sé, e ti sembrano ancor più assurde quando il primo caffè del mattino sa di cicoria tostata e l’oroscopo ti dice che entro la prossima mezza giornata, la tua vita cambierà! ecco, sono questi i momenti in cui ti senti completamente impotente e quindi inutile, ed è lì che ti verrebbe da dire che ti sei rotto e che quella partita gliela daresti vinta.

poi, qualche lettura dopo, tutto peggiora e diventa così monotono sentir parlare di lunghi sentieri da percorrere con i ginocchi e, quindi, assurgere a una pseudo santità che, invece, appartiene ai girasoli.

si dice che gli ombrelli non rimangono incinti, le idee sì però, ma di vuoti che svuotano altri vuoti e altri ancora, senza tener conto del vero percorso che, per fortuna, nessuno conosce.

una zanzara anemica forse antropomorfizzata per forza di cose!

magari potessimo avere tutti uno specchio delle mie brame non condizionato dal ricatto del polivetro, al quale chiedere se davvero c’è una più che un’altra, la più bella del reame super globale, e magari è una senegalese sbarcata a Pozzallo, possibilmente con le unghie tinte di fresco! sai che bella soddisfazione, sai che bel sentirti “umano” all’interno di un branco dico -e non si può dire- animali!

è vero, appariva come un angelo a quattro ali, forse otto, fata quadrupla, ed io, per la prima volta, mi fidavo dei miei sensi corrotti dalle parole, ma anche dalla bellezza.

infine, non ha fatto altro che seguire il suo istinto di cacciatrice malata di protagonismo, di quello “a ogni costo” e, senza pensarci duemila volte, mi ha ucciso, e non una volta, ma per sempre, senza possibilità di replica, rendendomi irriconoscibile persino a me stesso con tutta quella cenere biancastra che mi ha sparso sul viso.

e gli occhi? un cielo che cade e diventa inopportuno? ha rimosso ogni immagine, cancellato ogni riflesso, ogni particolare che potesse ricondurre all’anima. ma gli scandali sono sempre inopportuni, specie quando si ha da perdere qualche comodità, questo lo sapevano tutti, lo sapeva anche la gattina Dueditre, tutti, tranne i tutori, che di loro ci mettevano solo insipide insalate di niente e parmigiano. il culo rimaneva solo il nostro!

certo, non è che tutta la vita, i miei interessi, torti e ragioni si fermassero lì; avevo e ho altre cose importanti da considerare: ai concorsi (e i sensi, pure) di colpa, per esempio, vi ho sempre creduto!

le cose, spesso, sembrano avere vita propria, come la luna o la sigaretta, e se ne prende atto nonostante ostentate intelligenze matematiche, ma l’esoterico non perdona e crea quei karma di cui ognuno ha, spesso, esagerata stima, accettandolo come un “meritato” effetto boomerang… sulla pelle dopo diciotto ore sotto il sole di luglio, in una spiaggia della Martinica. ecco, è allora, che ti senti colpevole di ogni cosa andata male fin dalla genesi e, in quanto uomo, non puoi sottrarti all’auto gogna dell’errore capitale (vedi peccato originario), mentre una smania, proveniente da residui prepotenti di Homo Erectus, non darebbe altre possibilità oltre alla distinta eliminazione di almeno un se stesso, anche se qualcuno insisteva ossessivamente sulla centralità dell’uomo in quest’universo: mi permetto, di quando in quando, una sonorissima risata di esagerato scherno!

i margini predefiniti (o argini cementificati), stanno sempre stretti, qualsiasi possa essere la loro ampiezza. un uomo/fiume non riesce a metabolizzare qualcosa che esclude l’apertura, anche se questa spesso è percepita e tradotta come “invasione”. se non ci fosse la gabbia toracica, il mio respiro sarebbe infinito, e ne basterebbe solamente uno per l’intera vita!

In una condizione del genere, però, diventerei argine/margine a mia volta, escludendo ogni cosa, togliendomi prerogative di appartenenze, derivazioni, e riempiendomi di arbitri troppo liberi per uno che non è dio.

Nunzio stava operando il salto e la sua poesia prendeva una forma che si definiva sempre più verso una certa corrispondenza, non più sull’alveare, ma, si potrebbe dire, verso la peculiarità con il proprio essere: nemmeno lo specchio era più necessario, lo diventava, invece, il fluire, nessuna staticità, solo flusso!

se è vero che la risposta è nell’acqua (idea che mi tormenta da almeno trent’anni), che nel gioco si presuppone alta e libera, lui, adesso, lasciava che la parola lo trascinasse, non con essa ma in essa, attraverso quella domanda.

il pozzo, che per noi è l’abisso, ma solo perché non riusciamo a definire l’idea di abisso, che non ha niente a che vedere con lo specchio. il pozzo, a quel punto, smette di essere un ripostiglio, dove tenere soli e lune, o desideri (anche se di quelli che si avvicinano all’utopia, di quelli che somigliano all’imprendibile mercurio, paradosso e beffa all’incoerenza, così freddamente liquido e compatto), per diventare accadimento poetico. Per Nunzio stava diventando cosi, ma anche per Mariangela, Gisella e, dal qua dello specchio, anche per Claudia, che sembrava avesse in sé un parolario infinito. tuttavia, pur avendo penetrato il nucleo originario del Σύνταγμα (sintagma), pur avendo percepito ogni variabile del fonema, per fortuna, non riuscivano a spiegarselo e quindi a definirlo interamente stimolando, così, la loro infinita curiosità.

non so chi di loro fosse dislocabile in un avanti/indietro o sopra/sotto, di certo so che la dimensione linguistica si era liberata da una sintassi, credo, quasi feticista, e fluiva proprio come quell’acqua che seguivo trent’anni fa nei boschi il ruscello vicino a Erfurt, nella Turingia, in Germania.

in quei luoghi trovai un simbolo che ricordava una phi greca coricata, tale da sembrare una rampa di lancio per l’idea di un’energia poetica, un pensiero che si poteva spingere oltre, verso il non ancora creato.

tutta quell’energia, naturalmente, mi riempiva d’impulsi difficilmente traducibili, ma dei quali mi lasciavo impollinare come capelli sotto un temporale d’estate.

con quella schiera di personaggi accanto, virtuali o no, fantasiosi e no, teoricamente, si potevano aprire gates inverosimili ma, per quanti tunnel ultra dimensionali aprissi, qualcosa mi trascinava dietro quel fottutissimo specchio, reale quanto Alice in qualche altro paese che non fosse quello, o come un improbabile incontro con la vita: raro, molto più facile è incontrare la morte.

a me capitò.

aveva assunto la forma di un libro e volle essere letta (attenti, la vita è molto più furba della morte, meno leale, più impulsiva, aleatoria, a volte apparentemente benevola ma, mai definitiva e nemmeno ineluttabile). un libro, dicevo, dove il protagonista era un gabbiano curioso, che scrutava e studiava gli angoli remoti della coscienza, prima ancora di cercare tra le possibilità di sopravvivere, perché non servirebbe a niente arrivare a un traguardo senza capirne il perché, senza averne conservato il percorso da lasciare in eredità ad altri gabbiani, e non solamente per il futuro ma, soprattutto per il passato, anche prima di lui stesso, fino ad avvicinarsi talmente tanto alla luce, da perdere ogni lineamento.

“non è un’eredità dei nostri padri ma un prestito dei nostri figli” direbbe adesso un mio amico masai, tutt’uno con la terra, ed era questo che voleva dirmi la vita.

durante i sogni, si svolgono numerose matasse che di giorno sono pressoché inestricabili, credo, per via di quel “cambio lingua”, quella variante inesprimibile forse perché è solo segno o meglio, gesto.

e se fosse colore o somma di colori, magari in uno spazio che include anziché separare, ideocromi magari, direttamente provenienti e organizzati dall’impulso sinaptico senza i filtri della ragione. saranno più evolute di noi, le seppie?

(pausa cena)

l’acqua, si sa, è nostalgia, e anche se non è la stessa di sempre, rimane comunque l’idea che, come un velocissimo aliante, ti trasferisce in quei luoghi a volte sulfurei, altre, in piccole roselline bianche idrorepellenti, ferme per sempre in una memoria, comunque opportunista, spesso. per fortuna, ma non sempre, c’è l’odioso amico specchio, e allora chiedi se tutto quello che ti circonda, rientra nell’idiozia collettiva, pandemica condizione di chi ha trascurato anche una tabellina che, certo, non fa morti, ma non restituisce la distinzione.

domanda: “ma, dove si vuole arrivare?”. risposta: “forse all’interno di un’idea utopica di anarchia deliberante e delirante che pone sullo stesso piano l’opinabile e il dato di fatto”. ecco, quindi, che partono le riflessioni a raggiera infinita e si rimette tutto in discussione.

tra i tanti me stesso, c’è n’è uno cui tengo particolarmente. un po’ come quei figli che per un certo numero di motivi, si amano di più. il problema è che qualcosa ci cambia continuamente e, ricordo, quell’ultima volta che abbiamo risalito la collina, quando lo percepivo felice e mi parlava di una lei che evidentemente non lo era.

seppi, poi, che tutto bruciò e che non rimase neanche un po’ di cenere, solo un’urna vuota giusto per ricordare un niente che sembrava aver riempito tutto. la poesia era questa:

portai con me alcune figure non previste
danzavano come piccole fiammelle
attorno agli ulivi di luglio
le mostrai fate e ne feci esempio
per una luce a venire ma giunto il mattino
(finalmente), il paradiso sparì
dietro il tendone di un circo
tra la paglia dei cammelli
e la giravolta dei sentimenti addestrati
morì nel silenzio ed era ancora così bella …

uno cerca di capire cosa attraversa un girasole e che spesso, quel raggio che si vuole credere benefico, in realtà ti trafigge con i suoi sotto zero gradi.

manca sempre qualcosa negli aforismi o nelle poesie brevi dove, magari, si attende una sera che arrivi repentina, subito dopo la crocifissione … e invece no, hai da attendere agonizzante come per pagare un assassinio. hai solo amato, in definitiva, i denti che ti avrebbero sbranato senza alcuna pietà, eppure, paghi!

mi son visto, ero in fila dal tabaccaio, mi son guardato e ho sorriso poi, mi son girato senza riconoscermi …

“resurgam”, ho pensato qualche tempo dopo …

“questa follia d’amarti senza alcun condizionale che si aggiudichi la spocchia di un futuro, “te lo avevo detto”; questa malattia che non ammette parole persuasive di quelle che lasciano un segno meno nel bastone delle esperienze; una chemio che non guarisce ma che forse lascia avanzare la debolezza che cola dall’assenza, il miele amaro dell’indagine mai conclusa per mancanza di spazio vissuto; vuoto a perdere per l’inutilità del precedente pieno. questa follia d’amare quasi a ogni costo, come se null’altro fosse importante …”

e lui, quel maledetto specchio lì, a tacere una labile seppur assurda indifferenza, quasi come una croce sul petto.

(pausa caffè)

a forza di dare testate al sole, lo sfonderò e, finalmente ricongiunto al buio, risorgerò sfuggendo alla menzogna d’ogni mattino.

il sole non è luce, è solo fuoco e brucia tutte le strade e i sentieri, brucia le emozioni e le giunture, persino le congiunzioni.

non so che farmene di un punto che dice di dar vita e riempie poi il mare di ossidi e carne, da secoli costretto e senza governo; non mi trattiene la pena né la vergogna di una appartenenza, né tanto meno la fede sanguinolenta pesante come un asino trino sulle spalle: voglio vivere la morte, di gran lunga più leale e senza staccionate o piste per angeli programmati nei tabelloni degli aeroporti. il sole è un’immensa bugia che denuda e confonde mostrando vastità, ma sbiadendo confini misurati in canne di mitraglie, e non è luce.

anche le parole volano senza alcuna vera direzione, con false portanze che le sostengono come la verità che esiste solo nella propria arroganza e mai sulle cime delle foreste ma all’interno di un cuore, figlio del sole, falso come l’unica ruga/acquerello che lo divide in due, uguale alle dimore inesistenti, se non nel paese di Alice, come il battito che lo fa credere ricongiunto alla terra, tenendolo, invece, sospeso lungo l’argine effimero dell’assistenza, senza mai entrarci veramente, e già considerato sostegno.

sì, risorgerò in quell’oscurità che protegge dall’impertinenza, dalla necessaria eutanasia della coperta ancora peccato e dall’imperio vituperante del verbo sul verbo stesso.

eppure, c’è un pozzo dei miracoli da qualche parte dietro il respiro, a ridosso di un cielo minimo.

si nasconde.

tra me e me, cresce un muro che solo alcuni possono abbattere, qualcuno invece, ne costruirebbe altri sovrapposti ed io, non potrei sopravvivere a un altro silenzio. bisogna decidere confini laddove si vorrebbero erigere ponti e tutto questo rattrista quanto vedere una donna che si trucca con cura e si fa bella per nessuno, nemmeno per se stessa, e rimanere poi in casa col sogno sempre uguale,

lo stesso di sempre … quel sogno vile che non dà sbocchi ma solo l’illusione che da quel pozzo, prima o poi, una luna possa venir fuori a ristorare la notte continua, quella quasi morte.

[chissà se in quel tempo ti regalai qualche promontorio immobile o un cielo arancio sangue, oppure erano solo piccole candele già esauste? stasera non batte come le altre, si muove a malapena, si consuma e si deforma dietro bottiglie vuote e in un dimenticato rosa, poi tenta una sortita, la sera, e ti porta qui, in questo vuoto antico, in questo niente che non ti appartiene, di cui mai sei stata cittadina, giusto per un caffè molto amaro. per una breve magia senza ritorno, un collasso del tempo, l’impercettibile sorriso per un esaudimento rem all’ultimo momento, e neanche un filo di poesia.]

(una nota deviante)

[ogni strumento sono io, ogni nota, ogni dolore sono io.

ogni puntino coronato ogni biscroma ogni pausa e tutto ritorna senza tregua, tormento antico ancora vivo, antichi presenti. oh il violino, l’oboe così intimo: colpisci amico mentre provo a vivere! colpisci nei tentativi ormai esausti di tende che nascondono contrattempi, colpisci le finte riprese mai amanti e penetra il silenzio, perché è solo corde tese come i tendini che inutilmente tengono saldo un cuore che batte in tre mezzi a levare, e in una chiave che hanno portato via, ubriachi di niente infine, o di sole parole, d’inutili cortecce disperse lungo gli argini corrosi dell’anima, di voli che portano da nessuna parte plausibile, di fossi sornioni che vogliono farti credere a tutte le lucciole, quelle stesse lucciole che illuminavano le parole.

il flusso di ricordi schiaccia il torace, scorre veloce e implode sul finire dei giorni a ridosso della cucina ormai aleatoria, mentre preparo il caffè uno senza zucchero con cannella. quello era il silenzio pieno di esolinguaggi, il gesto ora fragore di timpani e tamburi, ora violoncelli, ma non una parola, niente per capire cosa conta ancora il pensiero costante o il clamore dei senza condizioni (verità temporanee) e poi …]

al momento, non avrei altro da aggiungere.

*

Resurgam” è un testo che fa parte della trilogia “Il rumore del ricordo” di cui fa parte “Saudade” e “Uno soltanto”.

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Sebastiano A. Patanè-Ferro, nasce a Catania nel 1953 sotto l’acquario di Febbraio. Fin da giovanissimo coltiva la passione delle lettere che comincerà a sviluppare con impegno negli anni ‘80 quando fonda il centro culturale e d’arte “Nuova Arcadia” salotto di poesia e sede di interessanti reading. Numerose le pubblicazioni in riviste e giornali del periodo, sia nazionali sia internazionali. Dopo un lungo periodo di fermo artistico, nel 1994 scrive, per innamoramento, e  pubblica la raccolta poetica “Luna & dintorni”. Nel 2011 la Clepsydra Ed. pubblica, in e-book, le “poesie dell’assenza”. Nel Giugno 2013, esce con la silloge di poesie “gli angoli (aprono i loro acuti per ingoiarci)” datate 2010, introdotte da Anila Resuli e con copertina di Maria Korporal, per conto della Smasher Edizioni e, sempre per la Smasher, nel Febbraio 2014, il racconto “Ho incontrato un angelo”. Nel Giugno 2015, esce “Il pescatore di fiori” per i tipi di Onirica Edizioni, introdotto da Daniela Cattani Rusich. Scrive teatro e narrativa ed è presente in diverse antologie poetiche tra cui Metamotphosis (Versinvena), Fragmenta (Smasher), No job (Smasher), Il cielo di Lampedusa (Rayuela) Kronos (Onirica). Nel 2019, è terzo classificato, con il racconto breve “Uno soltanto” al “Festival dell’altrove – Premio Angione – città di Sassari”, e pubblicato in antologia per le Edizioni Nuove Grafiche Puddu.


Una risposta a "“Resurgam” di Sebastiano A. Patanè Ferro"

  1. nel mentre riesumavo dalle “fosse colore o somma di colori”, le somme et policrome spoglie m’han suggerito che financo i “filtri della ragione” contrapposti agli ideocromi “direttamente provenienti e organizzati dall’impulso sinaptico” null’altro sono che “impulsi sinaptici” essi stessi. trattasi dunque di commistione fluida di pensieri scritti a mano libera dal network neuronale che inevitabilmente “include anziché separare”. epperò, che le seppie *seppiano* pensare dei pensieri più evoluti non lo credo.
    : )

    bando ai deliri, vengo al dunque. non solo la comunicazione è flusso, ma posso *scorrere* uno scritto, seguire il flusso di un discorso o imbattermi in una narrazione che prima ristagna e poi sfocia in un finale inatteso.
    tutto ciò per dire che queste “risorgive” di frammenti sono più organiche della materia (organica) ovvero perfettamente incarnano la secrezione di un fiume di parole. e, d’altro canto, “muco” è una parola e pure “succhi gastrici”, “latte”, “sudore” e “bile” lo sono, quindi il corpo umano secerne parole, “fiumi di parole” (eh, lo dice pure la canzone, quindi dev’essere vero).
    ed ecco che tali secrezioni piovane, scorrendo dalle caditoie tra le righe al compluvio tra le pagine finiscono per accadere nel pozzo della pagina *uèb* come un naturale v’agito narrativo fatto di cristalli liquidi. un “pozzo dei miracoli” dal quale non solo può uscire “una luna”, ma pure una vertigine d’abisso. la stessa vertigine di quando intravedo me stesso nella “fila dal tabaccaio” mi guardo e poi mi giro fingendo di non “riconoscermi”: tutta l’oziosa “impertinenza” di un rigagnolo scritto che si smarrisce tra fili *v’erba*.
    che cosa resta? “una breve magia senza ritorno, un collasso del tempo, l’impercettibile sorriso per un esaudimento rem all’ultimo momento” e, sul balcone, un filo con le parole “canottiera”, “camicia” e “sintagma” stese ad asciugare.
    insomma, complimenti per la forza, davvero “deliberante”, e grazie per gli spunti.
    : )

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