
(Oskar Kokoschka – La sposa del vento)
Questa è una poesia che scandaglia i paesaggi come una telecamera, paesaggi violenti come sono quelli all’inizio dei tempi e quelli che annunciano la fine di ogni era. Paesaggi che sono un feroce miscuglio di tutti i colori e di tutti gli elementi della tavola periodica. Predominano i colori freddi, ci sono è vero, anche macchie di colori caldi, tanti rossi, ma è come se fossero raffreddati, sono colori ridotti a vibrazioni di onde elettromagnetiche, tingono cose belle e vive ma immerse in un substrato morto e tetro.
La soggettività viene trasfigurata nel paesaggio, che diventa a sua volta una persona, un paesaggio-corpo come quelli contorti e tormentati delle tele di Kokoschka, che si dibattono chiedendo conto della loro esistenza ad una poesia composto da una materia pastosa e assolutamente immanente, nella quale si finisce per rimanere invischiati, non ammette nessuna forma di trascendenza, nessuna possibilità di fuga.
Di fronte a questi paesaggi viene da pensare all’inferno dantesco più profondo, la palude del Cocito, ma in Dante l’inferno è sovrappopolato, pullula di schiere di dannati ammassati l’uno sull’altro, questo l’inferno è vuoto, i dannati ci sono ma sono pochi, se ne intuisce solo la presenza effimera, se queste poesie fossero quadri
Il dolore umano sarebbe confinato nell’angolo in basso a destra,
i morenti gemevano negli angoli deserti, incolori , figure tormentate che si agitano sulla terra dentro uno spavento, come Giobbe dentro la balena.
In comune c’è la mancanza della speranza, in entrambi i casi i dannati sono condannati per sempre, non c’è apocatastasi.
Non esistono più le città, le antiche rotaie dei tram sono un loro ricordo lontano.
Il formicolare umano per le strade, le automobili sono ormai reperti archeologici calcinati, la vita si è fermata come a Pompei, come se tutto questo fosse già passato attraverso una lenta deriva mentale che conduce alla morte quella figura bianca di larva umana.
Una poesia che sembra veleggiare verso l’isola dei morti di Bocklin, per approdare in quelle forche caudine di rocce e di acque fredde in cerca di un po’ di pace.
Passano le ere, le civiltà, ma la navicella ritorna sempre al punto di partenza, dove la fine di un’esistenza coincide con lo stupore di un nuovo inizio, quando strappato dal nulla qualcosa comincia ad esistere.
Una figura, che altro non è che l’Io poetico, perlustra questa desolazione con la lanterna di Diogene, alla ricerca di un appiglio umano.
Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole come disse il Qoelet , le cose nascono, persistono anche per millenni, ma poi muoiono e ritorna la terra gelata di rocce ed acqua, la maledizione di un eterno ritorno comincia ad intravvedersi, che poi è peggiore del nulla definitivo. Noi uomini abbiamo paura del vuoto che ci aspetta, l’umanità tutta si chiede quale sia stato il suo delitto… per meritare questa punizione atroce.
Ciò che è vivo sprofonda nella terra che diventa un animale, un enorme organismo agonizzante, dal quale di tanto in tanto sporge “la curva di un bianco osso”.
Questi paesaggi desolati mi richiamano alla mente quelli vesuviani descritti dal Leopardi ne ”La ginestra, o il fiore del deserto”, quelli però sono aridi, un deserto infuocato dalla lava che vi cola, questi sono freddi e impregnati d’acque, la ginestra, e forse anche le macchie rosse dei fiori che sbocciano in questa poesia, rappresentano il segno della resistenza al nulla che è la vita, perché la vita sboccia dal nulla e poi vi ritorna inesorabilmente, ma porta con sé sempre un continuo rifiorire. Leopardi nello zibaldone dice che quando poetava dimenticava il nulla incombente, non pensava più al disgregarsi di tutte le cose, la poesia costituiva l’estrema illusione che consentiva di dimenticare sia pure per poco la sorte di ogni vivente, dice che in quei momenti tutto sembrava infinito bello e felice.
In questa poesia non c’è nemmeno questa ultima illusione che attenua il male di vivere.
Ci vedo però qualcosa che ne ha preso il posto, manifestandosi come uno schermo che modifica la visione di questa terribile realtà, ma è ancora appena accennata ed in divenire, potrebbe essere uno sviluppo futuro di questa poetica, e questo qualcosa è l’acqua. I laghi di acqua gelata, “tutto il mondo era d’acqua”, questi blu profondi sono un simbolo dell’inconscio, della sua attività di agglutinare in sé ogni attimo vissuto per dimenticare le dolorose rocce acuminate e le ferite che producono, quello che sprofonda nell’oblio rende ancora più indifferenziato e primitivo il paesaggio svuotandolo.
La poesia è la diagnosi non la medicina, la cura in questo caso è l’oblio. Una volta che tutto è si è inabissato nelle profondità di questo mare, solo allora diventa dolce il naufragare e forse potrebbe ritornare un po’ di pace.
La poesia però è un perenne viaggio, è arrivata a questo punto, ma prima o poi deve ripartire, deve arrivare ed esplorare altri luoghi, non può definitivamente impastoiarsi in queste plaghe.
Penso che questo scavo interiore sia propedeutico alla nascita di qualcosa di nuovo che recuperi anche delle valenze positive, dico parole semplici e quotidiane come la gioia e l’amore, che esprimono cose difficili da realizzare, ma che cominciano timidamente a parlare e a fiorire proprio là dove non ce lo saremmo mai aspettati, là dove c’è il gelo e si soffre.
Giancarlo Locarno
ERA QUELLA STESSA TERRA ROSATA
Tutto è aspro,
naturale,immortale:
era,
quella stessa terra rosata
-dell’alba-
solo un piatto feroce abbaglio.
In un silenzio simile
a un mare geologico
( torbido e muto)
lei rammemorava
tutti i luoghi di mancamento,
-e di nera tensione-
su quei ripiegati marmi bianchi
– su chi disponeva del potere della crudeltà,
e con la sua fredda mano.
(.. Ecco come si determinava l’aspetto di un uomo
destinato alla palude,
– chino e sprofondante-
fino all’innominato innominabile limite,
-a quei campi del silenzio
tumidi).
22 gennaio 2019
IN MEZZO ALLE BIANCHE TERRE
( E’ una scena netta:
il crepuscolo violaceo nel silenzio,
la spaventosa disfatta degli stagni gelati,
in mezzo alle bianche terre …)
In quello sterminio delle sfumature tutte
– con l’orto cinto da una siepe,
e le piccole finestre melanconiche-
quella fu la notte
della esaustione,
– di un cupo blu da acqua profonda,
e sotto un nitido angoloso sguardo
al di là di una macchia di citisi…
[ I morenti gemevano negli angoli deserti, incolori].
4/05/19
LA LONTANANZA AZZURRA
In una grande giornata autunnale
splendeva( dietro i rami)
la lontananza azzurra,
con gli asteri che sporgono
sul recinto di ferro,
stelle di un fuoco di sangue
che scorre tutto attorno
in un silenzio di cardi e di muschi.
Splendeva,l’autunno azzurro
sulla impura terra:
una ferita aperta,
la eterna immanenza,
la natura abbacinante di deserto
[…E sulla neve pallida
una immensa nube di cupo rame:
il feroce febbricitare,
e quella strana abitudine alla morte]
10 /06/19
LA LENTA- LENTA- CANZONE
Su tutta la giornata
[… il sole come adesso,
farfalle,
il silenzio di una cava di ghiaia abbandonata…]
la mia stanza coi muri
blu di prussia
era come una tomba:
lì accanto la piccola immagine
del suo rogo
– quel fuoco rosso.
Rivedevo il biancospino fiorito
di piccole rose bianche e carnate,
su i rami neri spinatiPoi, ancora una volta,quella vastità immensa( la neve nei solchi,un sole invernale,gli orizzonti pieni di neri boschi).In una sua cinerina tenutala morte cominciavala lentalenta canzone..
15/07/2019
POESIE 2020
QUEGLI STELI CHE VIBRANO
Gli steli che vibrano
sui baluardi rossastri
hanno tonalità di sughero,
vibrano nella massa enorme del cielo,
nei neri lattiginosi vuoti dei campi,
nello specchio ustorio
che scarna,
tutte quelle colture dei fiori rossi e dei fiori bianchi.
A occhi aperti
– tra le cose innumerevoli–
quel cielo e una disperazione,
in certo modo è bello:
e lei mai verrà a sapere,
quale sia stato il suo delitto…
2 gennaio 2020
IL CIELO ERA VICINISSIMO
…Il cielo era vicinissimo,
le montagne gelide,
le pianure brucianti…
E vi era lo splendore di tutte
quelle lisce superfici di pietra..
Sprofondando
verso quello splendore
(il vento appena levatosi
dalla nera notte del fiume)
pensava a l’amore
come una sanzione
tutto- dattorno-
da naturale diventava innaturale,
Per questi mari ansanti e mutevoli
si sentiva la notte:
una emozione tremenda
si vedeva una sezione delle vertebre,
la curva di un bianco osseo
( tutto il mondo era acqua).
27 marzo 2020
E LA TERRA ANTICA – E TERRIBILE
(In questo mare della innocenza
dove nessuno è innocente
avrei abitato in una dimora
liscia compatta
color di malva – e dolce)
E sulla terra antica e terribile
( nel bisogno di assassinio di queste città)
nell’obliqua solarità del pomeriggio
– nella fioritura fuori stagione-
l’autunno perdeva un poco del suo mite calore
visto da vicino,
(e foglia dopo foglia)
con gli splendidi ingannevoli colori della morte,
nebbiosi sulle acque.
Nel -solo- lago spento,
come un santuario senza rumore,
tutte queste estati travolte,
là i campi di silenzio,
nelle ore della notte,
quel bianco bagliore,ottuso.
19 luglio 2020
LE CIECHE NOTTI
Durante le notti cieche
fredde ventose
di ottobre
( non erano più le belle giornate)
l’acqua scorreva tranquilla e chiara
come l’ ambra sulla tomba:
era acqua immensa nelle ombre,
su una superficie grigia calcarea distrutta..
Comparivano visi strani dimenticati,
di una stessa romantica desolazione,
irrealta laccata acquosa saturata.
E ogni cosa era forse meravigliosa
forse patologica,
simile a quel purpureo- contorto- sterno di uccello,
pianamente sommerso.
19 luglio 2020
POESIE 2021
E LI’, SULLA COLLINA ALTA
[Non posso piu pensare ,
e senza crudeltà:
vi è una sola idea uguale,
dell’ orrore del tempo
-della bellezza]
Lì, tra le alte bardane fiorite
e la sfatta forma delle siepi
nella natura accesa
tutto pareva risaltare vacuo
come quegli arrossati fiori
stretti e conchiusi( oh come inermi)
sul fondo oscuro dei giardini vasti,
e nel profilo delle vicine violacee ombre.
Nella – piatta- ottusità delle cose
in quell’ abisso abbarbagliante
( e su quelle vette in eterno disumanamente nude)
l’ intero profilo era di una severità tragica,
come quel sospiro esangue
del chiuso lago,
lì, e sulla collina alta.
23 gennaio 2021
ARDEVA DA TEMPO
[…Ardeva da tempo- solitaria…]
Attraverso il rosso fitto
di quelle rose canine
nel battere – come d’ossa– dei rami ,
e sotto quella cupola di un cielo profondo – insensibile–
( le riportava alla mente
quel lineare raggelato azzurro
di rotaie di tram)
si vorrebbe che mi scorticassi,
tra le organiche verità
( non tanto aride
quanto terribilmente sterpose),
in una sorta di eroismo nudo, come inglorioso…
1 marzo 2021
FIORI DI PETALI FREDDI
[… Su di un rettangolo di schegge di granito
( della lunghezza di un corpo)
sta una chiazza rosso opaco,
ombrato rosso non rosso.
-di un fiore forse riflesso–
nel rosso,
[la più rossa delle parole—]
Allora si era colmata,
della fredda luce di pianure sgombre,
forse poi sarebbe stato bello
( una cosa dorata
completa e compiuta)
giù per lo stretto giardino verde,
in quella nitidezza delle carne
- delle ossa-
Nel profumo fresco
umido e pulito della calce
con quei fiori di freddi petali
tra i cespi grigi e azzurrini delle erbe
solo cose estreme:
le fenditure liquide terribilmente vitali
in un umidore metallico,
al di sopra la linea della leggera nebbia verde dei tigli,
in quello speciale vapore acqueo di ogni riflesso.
Ora esisteva solo la pioggia…
11 aprile 2021
Buongiorno-Ringrazio innanzitutto Giancarlo Locarno che si e saputo dimostrare persona di apertura grande e disponibilità generosa venendomi incontro quando io all’improvviso( io memore di suo conciso commento ritrovato proprio su questo stesso sito a una differente mia proposizione di altri testi introdotti da differenti critici e dove già accennava alla visione dantesca di Cocito)ho azzardato una richiesta di note di lettura su testi più recenti e lui subito liberamente ha accettato di farlo( meravigliandomi una volta di più essendo certo un atteggiamento niente affatto scontato, cosa da tenere presente quando si osa farlo:_)) Di tutto ciò lo ringrazio; per gli accostamenti portati avanti,, per nuovi approfonndimenti sviscerati ( leopardi, pompei[ questo davvero mi ha colpito, e penso che non mi dispiace affatto come pure la significativa immagine di kokoscha che definirei di avviluppi tortuosi e perturbanti, la stessa ( bella) titolazione da lui scelta
Accetto anche la nota dove viene accennato il tema dell’acqua pure laddove si preavverte una sorta di possibile ( e considerato da Giancarlo Locarno augurabile in un certo senso)cambiamento addolcente di trattamento ostico di tema x se stesso crudo.
grata a Giancarlo Locarno x il ricco profondo addentrarsi torno a rivendicare la necessita esistenziale/ essenziale di dare espressione a ciò che per sua stessa natura e incandescente/ allontanante,
grazie!
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mando un caro saluto e un particolare ringraziamento a Abele Longo che sempre mi ha aperto le porte: un vero intellettuale di rango nel senso di generosità mentale e culturale)
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