
“Grasso di balena. È per la balena l’equivalente della bellezza per la donna, ovvero il motivo per cui le si dà la caccia.”
(Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo)
«Ciao Balenottera!» fu il refrain sputacchiato dalla ragazza di 5°C, Giovanna e qualcosa, di sicuro Giovanna ed un apparecchio per i denti che faceva la sua sporca figura, rendendole il viso una maschera di carnevale – o di bellezza. Tuttavia, lei poteva permetterselo. Era una figa, una del giro, una a posto. Dall’alto del suo essere più grande e più famosa nel liceo, poteva permettersi angherie del genere. La “balenottera” in oggetto tirò dritto senza badarci più di tanto, sentì solo i jeans elasticizzati prudere attorno alle cosce, rivoli di sudore scenderle lungo le braccia. Alla fine della ricreazione sarebbe arrivata la sua scialuppa di salvataggio rappresentata da un’altra ora di lezione, e il suono dell’ultima campanella avrebbe rappresentato la sua salvezza.
Negli ultimi anni era stata chiamata in tutti i modi possibili e immaginabili, tra cui: grassona, cicciobomba, datterino, palla da bowling, fino ad arrivare al contesto naturalistico, tipo: balenottera, capodoglio, grasso di balena, insomma una serie di epiteti che per scrupolo si era segnata sul diario, una volta che non aveva niente da fare se non seguire il torbido corso dei suoi pensieri. C’era una radio gracchiante in sottofondo, la madre che cantilenava in cucina, nonna seduta a sonnecchiare davanti al televisore sempre acceso sullo stesso canale e, per uno strano gioco del destino, in quel momento passava una pubblicità di diete miracolose tipo 7 chili in 7 giorni. La più giovane del trio aveva fatto una smorfia sentendo quell’altro refrain di donne atletiche, allegre, sorridenti e sportive, che al ritmo di una musica tunz-tunz facevano esercizi di aerobica per combattere guerre immaginarie contro i chili in eccesso che loro vedevano solo nei propri incubi. Per pudore, era andata in soggiorno e spento la televisione. Se avesse potuto, l’avrebbe gettata giù dalla finestra, ma allora sai le urla di mamma o nonna, e dopo chi poteva più guardare quei divi belli e impossibili? Ah, beh.
Lei era così da quando era piccola: cicciottella dalla nascita, con gli anni il suo peso era dilatato. Avevano visitato medici, pediatri, nutrizionisti, luminari: la risposta era stata sempre abbastanza vaga: “le analisi sono tutte nella norma; vostra figlia sta bene; semplicemente, è fatta così. C’è chi può mangiare chili di cibo senza prendere neppure un grammo, altri con pochi bocconi ingrassano a vista d’occhio. È nella sua costituzione, nella sua genetica”. Genetica, già. Una maledizione. Come avere i capelli rossi o gli occhi color dell’ambra: è così, non ci puoi far niente, accettati per quello che sei, vedrai che eventuali problemi verranno risolti e un domani potrai guardarli con un sorriso.
Sorriso. Il sorriso lo vedeva sempre stampato sui volti degli altri quando passava nel corridoio del liceo come una forca caudina. Sorrisi di scherno, di disgusto, di pietà, di derisione. O forse era lei che esagerava tutto, vedeva solo complotti là dove c’era mera indifferenza, prendeva fischi per fiaschi. Ne aveva parlato con sua madre ed il responso era stato appunto questo: “Tu Giada dai troppo peso (…alzata di occhi della figlia) alle cose, sei una ragazza sensibile…”, le aveva detto accarezzandole i capelli lunghi, ramati. “Sì, mamma.” Aveva risposto Giada dagli occhi blu cobalto, blu come il mare profondo – le balenottere! I cetacei giganti! I loro canti soavi… – ma in fondo non aveva ascoltato le bonarie rassicurazioni materne. Cosa avrebbero cambiato? Alla fine, passava la maggior parte del suo tempo a scuola, mica nel nido.
Già, la scuola. Il liceo, che le avrebbe aperto le porte per l’Università, e poi la carriera, la famiglia, figli, nipoti, pronipoti e via discorrendo. Bulimica di pensieri, era anche bulimica d’affetto, ma non del cibo, perché tanto bastava mangiasse una mollica di pane perché acquistasse scampoli di adipe. Idem dicasi l’effetto paradosso che riceveva con le altre persone: tanto più si faceva avanti, tanto più veniva respinta come nel maledetto gioco del tappeto elastico. Bouncing ball, la schermivano le più stronzette della sua classe, ma non avevano il coraggio di dirglielo in faccia, glielo mormoravano alle spalle e non appena lei si voltava per dare un volto a quelle brutte paroline, trovava solo facce angeliche e sorrisi fasulli. Non poteva farci nulla, era un destino beffardo cui qualche dio distratto l’aveva evidentemente condannata. Ah, beh.
Rinchiusa nella sua torre eburnea, in una clausura monacale autoinflittasi, la nostra povera ragazza sospirava perché un qualche principe bello come il sole (o sporco come un garzone di bottega, andava bene qualunque cosa purché profumasse di libertà…) potesse salvarla dalla sua becera condizione esistenziale. Il mondo esterno era un campo minato, per lei; gli altri, crudeli nemici contro i quali mancava delle armi giuste da contrapporre. La sera, prima di andare a letto, non pregava il buon Dio, ma si limitava a conficcare le unghie nella carne e domandare potesse giungere finalmente qualcuno che potesse accettarla così com’era. Magari…
Un giorno, come uno scoglio affiorante dalla bassa marea, arrivò un nuovo elemento nella sgangherata classe di Giada. Si chiamava Peter, ragazzo straniero giunto da qualche anno in Italia. Si era integrato ottimamente, come una barca a rimorchio seguiva gli adulti nei loro innumerevoli cambi di posto di lavoro. Non riusciva ad attecchire in nessun terreno coltivabile, veniva spazzato dal vento in ogni dove. Tutto sommato, se la stava cavando, lui.
Ecco il vostro nuovo compagno di classe. Vai pure a sederti dove trovi un posto libero, tipo…ecco, là. Vicino a Giada. Va bene, Giada, se si siede accanto a te? L’intera classe puntò gli occhi su di lei come un faro che abbaglia nella notte. Certo, professoressa, rispose con un filo di voce. La classe rimase in silenzio, mentre i due ragazzi si salutavano e Giada sgombrava il banco a fianco dei suoi affetti personali. Quel giorno, per chissà quale motivo, non ci furono frecciatine ulteriori. Forse perché aveva già provveduto Cupido a scoccare il suo colpo.
Le prime settimane passarono lievi, l’attenzione era monopolizzata dal nuovo arrivato. Era gentile con tutti, rivolgeva l’attenzione a chiunque, persino alla sua nuova compagna di banco. Poi, calmatesi le acque, ricominciarono le angherie contro il capro espiatorio, ovverola ragazza in carne. Il giorno prima dell’inizio delle agognate vacanze pasquali, passato di mano in mano tra le arpie, arrivò un bigliettino al giovane Peter, scritto a pennarello: “Occhio alla grassona accanto a te. L’adipe è contagioso. E ricorda: non è la sorpresa nell’uovo, ma l’uovo senza sorpresa.” E una faccina sorridente. Pronto ad appallottolare il foglietto e buttarlo, troppo tardi: Giada ne lesse il contenuto con la coda dell’occhio. Senza dir niente, senza aggiungere altro, uscì. Nel corridoio, per la prima volta dopo tanti anni, si abbandonò al pianto.
Il pomeriggio qualcuno suonò al suo campanello di casa. Era Peter, aveva in mano l’astuccio della ragazza.
«Scusa se ti disturbo, oggi hai lasciato questo in classe!» le urlò dalla strada.
Lei abbozzò una qualche parola.
«Scendi a prenderlo?»
Poteva dire di no?
«Ciao…», fece lei nel vederlo come fosse la prima volta. Lui non rispose. Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. «…volevo dirti che oggi…»
«Tu non devi dire nulla, non ce n’è bisogno.» Giada si accorse per la prima volta che Peter aveva degli occhi davvero belli. E portava gli occhiali. «Lasciale perdere, quando vivevo in Germania mi chiamavano quattrocchi, ci ho fatto il callo alle prese in giro degli altri.»
«Sono anni che mi prendono in giro…»
«Hai mai pensato a guardare le cose da un’altra prospettiva? Pensa: col grasso di balena ottenevano olio per lampade, lo sapevi? Era qualcosa di utile, di pregiato. Perché devi darti addosso per queste cose? Mi piaci così come sei, tutto il resto non conta.»
«Ma…»
«Non mi interessa ciò che dicono di te gli altri, se ti prendono in giro le altre ragazze che sembrano miss di bellezza. Sono stupide, vuote.»
«…»
«Ora andiamo a fare una passeggiata, vuoi?»
«Oh, sì. Eccome.»
«Ci prendiamo un bel gelato, dopo, ok?»
«Ovvio.»
Gli avvicinò le cuffiette all’orecchio. «Ascolta qui, è una canzone vecchiotta, però mi piace sempre ascoltarla. È poetica.» Giada ascoltò in silenzio e, al ritornello, si commosse.
“E con le mani amore, per le mani ti prenderò
E senza dire parole nel mio cuore ti porterò
E non avrò paura se non sarò come bella come vuoi tu
Ma voleremo in cielo in carne e ossa, non torneremo più…”
Quel giorno, nel maldestro gioco dei destini incrociati, la coppia incrociò per le vie del centro la famosa Giovanna che amava perdere tempo prendendola crudelmente di mira. In realtà era anche cotta di Peter, il nuovo ragazzo della quarta C, ma quello era un altro discorso.
Stavolta Giada non abbassò lo sguardo, non si preparò ad incassare il colpo, strinse con maggior fermezza la mano del suo cavaliere e, prendendo un gran respiro ed armandosi di un mucchio di coraggio, le rivolse una sonora pernacchia. Il mutismo e gli occhi sgranati di quest’ultima furono la miglior risposta che avrebbe mai potuto chiedere.
«Il gelato gusto invidia ce l’avranno, secondo te?» chiese Peter a voce alta.
«Non so, sicuramente avranno il gusto felicità.» rispose Giada.
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Luca Cassarini è nato nell’Estate 1987. Suoi racconti sono comparsi in un’opera collettiva (‘Il cielo sopra Ravenna’, Fernandel) e un paio di antologie (‘Storie a quattroruote’, Rudis Edizioni e ‘Novelle giapponesi’, Idrovolante Edizioni); pubblicati online sulle riviste: Coye, Smezziamo, Il Diario del Riccio, Il Foglio Letterario, Salmace, Quaerere, Waste, Tremila battute, Crunched, L’incendiario, Grande Kalma. Da fine 2019 scrive sotto pseudonimo sul proprio blog, Scritture Artigianali.
onestamente, dopo la citazione di zio Bierce in incipit mi aspettavo qualcosa di più graffiante. racconto ben scritto, che scivola via.
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