Donato Ferdori – Tre Pasolini personali

Tre Pasolini personali, di Donato Ferdori

Nella mia vita Pasolini è stato soprattutto tre cose.

La prima è la visione del film Il vangelo secondo Matteo. Avevo poco più di vent’anni ed era mattina: il corso di filmologia in via Centotrecento a Bologna si svolgeva presto, vedevamo le pellicole di PPP e i docenti le commentavano nei dettagli, ma quando proiettarono il Vangelo piansi per quasi tutta la sua durata. Avevo già abbracciato il buddismo allora, quindi non si trattò di un riconoscimento sul piano confessionale. A commuovermi era in particolare la severità del Cristo, il suo essere estremamente esigente con i discepoli. Avevo avuto un’educazione cattolica e molti dei contenuti della pellicola erano familiari, ma nessun prete o parente o insegnante o amico mi aveva mai parlato del Cristo nel modo in cui lo stava facendo Pasolini. C’è chi dice che l’estremismo dell’etica presente nei Vangeli dipende dalla visione apocalittica di Gesù, dalla sua ferma convinzione dell’imminente venuta del Regno e che quindi si tratta di un’etica inapplicabile alla quotidianità, se la si prende sul serio. C’è qualcosa di vero in questa sottolineatura della portata del contesto storico-culturale in cui vennero pronunciate quelle frasi. Eppure l’etica che entusiasma, che ha la forza di trasformare l’intenzione di una persona, ha sempre questo carattere radicale, disarmante, quasi spaventoso. Il vero bene ti precipita nel presente come se non ci fosse nient’altro, come se davvero stesse finendo il mondo. E il Cristo di Pasolini con le sue sopracciglia unite, con gli occhi e la bocca che non lasciano scampo, riesce a dare un corpo a quelle frasi: “Chi è la mia madre? E chi sono i miei fratelli?” oppure “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” o anche “Osservate i gigli del campo, come essi crescono…”  L’ “Erbarme dich” di Bach fa il resto.

La severità compassionevole è forse la forma più pura della bontà, la più difficile da praticare, spesso la più efficace; di sicuro, per me, la più commovente.

Il mio secondo Pasolini ha sempre a che fare con un film: questa volta è il cortometraggio “La rabbia”, il suo inizio: c’è l’Adagio di Albinoni (che era il mio brano quando suonavo l’organo elettrico da ragazzo), ci sono le immagini della Primavera di Praga e soprattutto c’è una voce fuori campo che recita un pezzo che conosco a memoria:

Se non si grida ‘Evviva la libertà’ umilmente, non si grida ‘Evviva la libertà’.

Se non si grida ‘Evviva la libertà’ ridendo, non si grida ‘Evviva la libertà’.

Se non si grida ‘Evviva la libertà’ con amore, non si grida ‘Evviva la libertà’.

Voi, figli dei figli, gridate ‘Evviva la libertà’ con disprezzo, con rabbia, con odio. Perciò non gridate ‘Evviva la libertà’.

Questo sappiate, figli dei figli: che gridate ‘Evviva la libertà’ con disprezzo, con rabbia, con odio.

Quando lo vidi ero sempre nei miei vent’anni, venivo da esperienze nei centri sociali, avevo sfiorato la sinistra extraparlamentare di fine anni Ottanta / inizio Novanta e avevo ormai uno sguardo critico su quel mondo. Il brano del film va contestualizzato nella Guerra Fredda, ma anche in questo caso ha una portata che trascende il contesto. Per me i “figli dei figli” erano i ragazzi dei centri sociali, dove di sociale alla fine avevo trovato poco: c’era tanta rabbia, tanta voglia di godere, ma non c’era etica, non c’era felicità mi dicevo. Trovo meravigliosa soprattutto l’ultima frase, quando dice: “questo sappiate, figli dei figli…”. Non sempre lo si sa, qual è il vero motivo di ciò che si va gridando per strada. Oggi potrebbe essere: “Né con Putin, né con la Nato” o uno qualunque degli altri slogan o le nostre prese di posizione più o meno pacifiste su facebook.

 L’ultimo Pasolini di cui sento di voler parlare riguarda un interesse meno remoto. E’ il Pasolini di certi brani di “Petrolio” o anche quello di “Salò”. E’ lo scrittore e il regista che esplora e mette in scena la pulsione al godimento, la ricerca spasmodica di quella “jouissance” che Lacan contrappone al desiderio e all’amore, e con cui però bisogna saper fare i conti perché a un certo punto della vita ci si può accorgere che ha in noi una radice inestirpabile, a dispetto di anni di sforzi per eluderla. E’ l’“infinita fame d’amore […] di corpi senza anima” di cui PPP parla in una poesia famosa, importante e non particolarmente bella.

Come ha chiarito anche Recalcati nel suo “Esiste il rapporto sessuale?”, l’evitamento della tensione che caratterizza il piacere e ci accomuna agli altri animali non definisce il godimento – esperienza peculiarmente umana – che si regge invece su una tensione continua. Per questo c’è qualcosa di irriducibilmente sregolato e intemperante nell’esperienza sessuale di uomini e donne: un’eccedenza vertiginosa che può potenziare la vita o tendere alla sua distruzione.  Pasolini è in grado di mostrarci entrambi i versanti – quello vitalistico e quello diabolico – dell’ebbrezza del godimento e forse anche il loro punto di equilibrio. 

Ad esempio, le pagine del noto appunto 55 di “Petrolio” – quelle del “pratone della Casilina” – erano disturbanti e scandalose negli anni Settanta e in qualche modo lo sono ancora. Allora credo che lo fossero anche e soprattutto perché contribuivano a rendere visibile fin nei dettagli carnali l’omosessualità dell’autore. Oggi non lo sono più per questo motivo, ma lo restano, più radicalmente, per la messa a nudo di quest’aspetto della nostra vita – la pulsione al godimento, con i fantasmi infantili che si porta dietro – che non si lascia inserire armonicamente in una prospettiva etico-politica progressista, né in una cornice spirituale.

Da eterosessuale non vedo interamente il fantasma che anima quelle pagine pasoliniane, così come, da maschio, non vedo fino in fondo quello di Patrizia Valduga, che nelle sue quartine compie un’operazione altrettanto coraggiosa e disarmante; ma riconosco bene in entrambi gli autori il marchio di una tensione erotica lontanissima dall’edonismo e che ha invece strettamente a che fare con l’individuazione, col bisogno di essere a tutto tondo sé stessi.

Uno dei contributi più preziosi di Pasolini, per quanto mi riguarda, sta proprio nel suo mostrare con la vita la dolorosa compatibilità di quell’intemperanza irriducibile e dell’altrettanto irrinunciabile tensione al bene; la possibilità di vivere entrambe fino in fondo costringendole in qualche modo ad alimentarsi a vicenda.


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