
Il volume di poesie è molto compatto, si occupa fondamentalmente di una sola problematica: la discrepanza tra apparenza e realtà, che si traduce anche in uno iato profondo tra la lingua della “superficie” piena di oggetti della vita quotidiana, “la smerigliatrice”, “parrucche”, “vernici”, e quella del profondo, più scarna, di poche parole pregne di significato. Ogni poesia sembra avvolgere queste ultime in un involucro costituito dalle prime.
Una guida per il viaggiatore della vita che si aggancia al pensiero orientale.
Siamo ancora quelli dei ghiacci primordiali, quando tutto era una natura terribile e nemica, ci siamo evoluti conservando nella nostra mente questo nocciolo di buio.
Sembra che la coscienza sia nata per avvolgere con le sue parole questo grumo oscuro, per neutralizzarne gli effetti, e darci attimi di luce effimera.
La vita dunque è solo superficie, svago, vacanze, un viaggio in treno, che mi ricorda quello di Viviane Lamarque, ed è quasi una risposta alla sua domanda :
A vacanza conclusa dal treno vedere
chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna
la loro vacanza non è ancora finita:
sarà così sarà così lasciare la vita?
Questa vita viene lasciata in fondo al mare inconscio, dove si frantuma ogni cosa, tutto vaga come le membra smembrate di Osiride, immagini senza più coerenza.
Il mondo è uno spettacolo ipnotico, l’affabulazione di non si sa quale parlante.
Noi non ce ne accorgiamo, nella vita , tanto siamo avvezzi al travestimento, a costruire generalità false da disegnare su una finta superficie che avvolge la realtà.
In certi momenti speciali ci casca addosso il senso delle cose, come successe a Montale nella poesia “Forse un mattino andando in un’aria di vetro”:
Vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.
Da una situazione simile sembra procedere il libro.
Come se all’inizio del viaggio si è come i ciechi del dipinto di Bruegel il Vecchio, poi succede qualcosa per cui non si corre più l’uno dopo l’altro mano nella mano a gettarsi nel fiume, ma improvvisamente una luce appare, una sensazione nuova, mostra loro la macchia rossa che si allarga dal cuore al cielo.
La vista non è stata per loro benevola, ha portato all’angosciante scoperta che il perno della realtà è il vuoto.
Questa scoperta è come il messaggio che l’imperatore ha affidato all’ultimo dei messaggeri, sa che non arriverà mai a consegnarlo, ci sono infinite strade che si intersecano, infiniti pericoli, infinite città, ma strano a dirsi qualcuno alla finestra l’ha ricevuto, ma non dice che cosa c’è, cosa abbiamo scoperto
dentro la bisaccia del messaggero.
Pensavamo di aver tolto il velo di Maya dalla bisaccia, ma non non crediamo, o meglio non riusciamo a trarne le dovute conseguenze per costruire il nostro comportamento della vita di tutti i giorni adeguandoci alla scoperta…
Se non c’è niente nemmeno nei graffiti delle grotte preistoriche, vuol dire che gli uomini non sono mai realmente esistiti, fantasmi che estraggono costellazioni nel mare nero dell’inconscio per gettarle in cielo, e le scoperte della poesia sono come macchine sceniche, come le illusioni del Leopardi, ci rendono una parvenza di gioia e sopportabile la vita.
Un teatro d’ombre, come il Wayang indonesiano, fatto quindi di buio e anche di luce, il buio si deve stagliare sulla luce e rivelare le sue forme, che sono bellissime.
Alla coscienza infelice manca però la risposta alla domanda:
“Visto lo stato delle cose, allora, cosa facciamo?”
La parola esige sempre una risposta futura, anche se gli orizzonti sono troppo lontani da raggiungere.
Giancarlo Locarno
Da “Teatro d’ombre”: Fuochi fatui È dai tempi dei ghiacci primordiali, quando nessuna cosa aveva nome e le notti erano più lunghe di oggi, che i luoghi oscuri ci fanno paura; da bambini, guardinghi, evitavamo di mettere piede in un certo capannone dismesso e di esplorarne i penetrali, anche in pieno giorno: la poca visibilità incuteva un sacro orrore, e dicerie terribili d’istinto ci tenevano alla larga dai suoi dintorni, storie che giravano circa un segreto al suo interno, un pericolo. Più conveniente più prudente eludere le grotte e la loro ombra, con un gioco di torce e di bengala volteggianti, per fare tollerabili eventuali blackout; innalziamo fuochi fatui, frivole stelle elettriche, composizioni estrose di fiammiferi: è così che combattiamo la nostra guerra impari, infruttuosa, contro il buio che da millenni coviamo nel sangue; siamo falene, che fuggono, attratte da un chiarore sconosciuto e mortale. Coscienza sporca Bariamo impunemente sulla luna e sulle carte che distribuisce, ci appelliamo a vizi di forma quando il contratto ci mette di fronte a clausole troppo impegnative, ricorriamo a una scorta pressoché senza fondo di pillole ipnotiche, o facciamo uso senza troppi scrupoli di firme contraffatte, di passaporti falsi; stendiamo un fazzoletto sulla macchia, tiriamo su la lampo fino al mento perché nessuno faccia caso al gonfiore bluastro che ci cresce sotto il colletto; non lo diciamo in giro che cosa c’è, cosa abbiamo scoperto dentro la bisaccia del messaggero. Ballo tra ciechi Setacciamo una strada dopo l’altra in cerca di orme di fenicottero, con gli occhi opportunamente cuciti in strenne da regalo e in adesivi colorati; il cellophane avvolge i nostri souvenir più cari, il nostro ricercato assortimento di pennarelli e magneti turistici; non ci facciamo caso, se non una volta rientrati, a quella strana macchia, inchiostro oppure sangue, che si va ad ogni passo allargando a metà tra la tasca pettorale e il cielo. E intanto le strade bendate srotolano il loro identico ordito ma intorno a un fuso che non è in nessun luogo – e il vero perno dei cieli è il vuoto. Teatro in mezzo al mare Lo gridiamo, di esistere, alle strade: le strade sorde, a capo chino, in lunghe file in catene, che battono in tondo un percorso oggi e ogni giorno uguale; imitiamo una scimmia, che rivolge ai passanti, dietro una tapparella, boccacce e smorfie sconnesse e insensate, e fa sfoggio di pose che per la loro gestualità isterica e per il pathos teatrale che ostentano inducono al sorriso: hanno un effetto a metà tra il patetico e l’involontaria autoparodia. Scioriniamo espressioni colorite, pur di far colpo sul dio della folla che però non ha tempo, e non si volta neanche un istante dalla nostra parte. Errore originario Potrebbe non esserci niente dietro i graffiti conservati così a lungo sul muro delle caverne. Se è così, non abbiamo fatto altro fin dall’infanzia che esercitarci in sterili lezioni di scherma con le ombre. Staniamo Dio da ripostigli e pozzi; il più antico dei gridi ha come padre il fondo di un cratere e sparge nel vuoto costellazioni.