Antonio Sagredo: Il suono dello specchio – inediti

Torre Sant’Emiliano, Otranto.
IL SUONO DELLO SPECCHO


IL sogno dello specchio mi confortò d’una sinfonia.
I tasti riflessi si mutarono in suoni libertini
e si sparsero sulle note i grani di un eretico rosario.
Mi mancò un’arietta per essere linfa e cenere.



Il settenario puntò i gomiti su uno scordato pianoforte
e  snervò la gola per cedere all’ugola dorata il canto.
Non avevo che merletti e uncinetti tra le dita intricate,
come le immagini ricciute d’un etilico poeta irlandese


febbraio-marzo 2023




BORGES, per caso


Oggi la mia ombra non mi ha seguito
con un rumore che mi sfascia
…mentre  guardavo negli occhi il Golem
negli occhi di una cosa,
e mentre abbandonavo i miti e i delitti
verso quale oblio sto andando? – mi chiedevo.


le rovine circolari  sono i libri che m’accerchiano,
sono quei libri che cantano talvolta senza senso
e mi domandano i versi se ancora li scrivo
perché altro non so fare intorno al mistero
se non scacciare la semplicità  
per una modesta complessità



e senza un dubbio e né un timore
nemmeno un dio qualunque più non mi sogna,
e le radici delle note annullano il passato,
e l’immortalità è una perdita di morte
come del tempo 
                            l’eternità!



Roma,  1° aprile 2023





La patacca di una finzione


IL sogno dello specchio mi confortò d’una sinfonia.
I tasti riflessi si mutarono in suoni libertini
e si sparsero sulle note i grani di un eretico rosario.
Le lingua delle ceneri, come il  calco di un fuoco effimero.


Perché mi riconosce lo specchio e mi trattiene?
Nelle notti tra i vicoli  dove il vento si sfianca?
E tra le mani il cerebro vacilla e splende come un’armilla!



E come una nemesi lo specchio mi trattiene,
come in una rovina di un circolo interdetto.


29\03\23 – 04\04\23




Uscimmo. 
Un piccolo schifoso stazzo
era rumoroso di grugniti,
di scrofe nella melma maleolente…
non era recintato e creature mostruose
miravano il cielo
serene 
e con le zampe immerse nei liquami.



Roma, 4 aprile 2023





Poesia, io ti scongiuro con l’ultima parola…


Dall’estrema contrada dei Cappuccini 
sferragliare di treni merci come isteriche letanie.
Alati ronzii che assediano i cortili 
con gemiti di galletti nelle mie arterie. 


Di mattino ho creduto nello Spazio riflesso 
e nelle pozze di mosto della via consolare.
Gli zoccoli equini  insanguinati dalla rugiada
stampano nel fango - la pietà o la memoria?


La memoria che smerciò la mia vita in contumacia
nelle contrade battute dal viscoso  favonio, 
coi tramonti rancidi e lacerati s’accese
speranzoso a nuovi viaggi mai iniziati.


Poesia, io ti scongiuro per l’estrema  parola
che m’è restata al capezzale del ricordo:
che non ha un nome il verso della casa
se non un numero materno che s’allontana.



C’è sempre un poeta che mai conosceremo
dietro la porta o sulla soglia del suo svanire,
e non so quale dio mi cerca invano nello Spazio
con la mia lingua legata al decrepito steccato. 



E  gli occhi crollarono nella pozza acida… splash!
E nei ricordi  nemmeno una orfanezza da smerciare,
imploravo figure e canti  nella veglia
per mendicare, come una nemesi,  una ridicola elemosina.


Come uno sguardo su un libro  mai letto e sfogliato
è sul marmo che non leggerò  mai le date già fissate
nell’ultimo linguaggio che chiede invano e senza requie
dalla mia scrittura l’estrema partitura.


Le voglie di una rosa di pietra che schiuse i miei pensieri
alle meraviglie temendo nella notte gli incubi stellari
e negli inferni di presunti suoni i canti sbigottiti
di un coro prestato a un tarlato organo sdegnoso.


 Il volto e la maschera si contesero le mie fattezze
di creare in un nuovo verso  un grido come un rostro
di battaglia che sul marmo riposa come un necrologio
nella dimora di una memoria  e di un rossastro vino.




Il calco di un canto sulla soglia come il custode
di un dio mi tallona e con le sue offerte mi sorveglia.
Nel vuoto del mio tormento di biacca  i vermi
mi svuotano come un martire eletto o un carnefice indolente.


E cieco, sono ritornato allo specchio 
e rivendico la menzogna di una luce:
non c’è il Tempo, ma solo un Luogo da squadrare. 


Poesia, io ti scongiuro con l’ultima parola
che novembre è il mese più gioioso,
che non si può imitare il lutto di un trionfo.
Resta la soglia a segnarci e a regnare su di noi.




Roma, 6\7 aprile 2023






Addio alla casa materna


Da ieri devo dissipare il tempo… cosa vedrò io da morto?
Domani c’è  l’anniversario di un 93°  presunto suicidio, 
e la casa materna è venduta. Chi gioisce e chi canta là fuori?
E così si chiude il mio esilio da accattone  nella mia città natale.
 

Si comincia a ricordare appena si è morti la contrada
dove  la mia infanzia  più che un sogno fu un’assenza
di  testimonianza, una visione  libertina da cantare
tra gli scrosci di acque feniche e marci passi  sulla consolare.



Da ieri i miei versi hanno il sapore acre della sentina
che sul corpo si decanta come un unto lenzuolo, 
e le mani sono stirate e vuote, e non sanno il gesto della scrittura. 
Non ho più una morte degna di vivere: non mi resta che dormire!



Roma, 13 aprile 2023




Né suppliche, né preghiere, né perdoni…

Non Io, ma la morte notturna mi deve chiedere scusa
E del tempo che m’è restato non temo la fine estrema
Ma il terrore che mai si accordò con me sulle due rive
Perché la distanza  erano  due rette e non un circolo.

Alla Morte dobbiamo cedere lo Specchio, non l’amore
Ché se l’emigrazione esiste, esiste per la finzione.
Non so se mi tradisti al tempo delle mature mele
O se lo spazio fu complice di due anime, di due coralli e perle.

E non mi porta fortuna il doppio 4, e non so contare oltre
L’estasi di due corpi e i suoi maneggi e gli atti e i gesti
Non so del guanciale altro uso del sollevare i glutei
E lanciarmi con l’asta nuda, senza rete, per essere tutt’uno.

Troverai la colpa del rimorso dal grido del tuo piacere
Un trionfo, sentirai, come una ostinazione senza requie
E potrai nel godimento contare le aurore che mi restano
Per ripetere ancora il rosario tutto il giorno fino a sera.

Ma se l’estasi non ci rende l’unità dei nostri movimenti
Come la fusione è possibile senza l’incessante passione 
Che noi rivolgiamo non al cielo, ma all’alcova satura di aromi
Perché la rovina non ripeta la solitudine  delle nostre lingue?






E mai andremo in giro a raccontare i moti dei nostri corpi:
I sessi che ci scambiammo per finzione non furono i traguardi
Stabiliti e che ben oltre spingemmo la rotta verso non glaciali
Rive per apprendere e mirare da vicino il fascino  di segreti occulti.


E fu come un approdare ai nostri destini non comuni sentirci
Infine vivi nei nostri carnali labirinti per sciogliere da amanti 
I venosi nodi: mettere da parte le anime inconsistenti altrove
Mentre noi nei corpi generiamo nuove arterie per il godimento.



Antonio  Sagredo

Roma, 17 maggio 2023
(dall’ora sesta alla settima vespertina)




3 risposte a "Antonio Sagredo: Il suono dello specchio – inediti"

  1. Grazie ad Antonio Sagredo per questi inediti, dono prezioso per chi ama il suo barocco, melanconico qui di rovine e addii, di un sottile velo d’ironia – flusso di coscienza sull’ irreparabile passare dei luoghi e degli anni e la scia che lasciano.

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  2. Antonio Sagredo sempre mi stupisce anche per la leggerezza dei suoi splendori baroccheggianti. Campione unico del “controcorrente” come lo fu “l’artifex” massimo salentino. Addirittura c’è chi lo definisce dall’essere a due passi dal titanismo, così Donato Di Stasi nella acuta prefazione ai “Capricci” “il quale assieme ad altro testo “la Gorgiera e il delirio”, segna la punta apicale di un estremo visionarismo di grande possanza.
    Mi stupisce che ancora ad una età anziana non c’è in giro un suo rivale in poesia, sia in Italia che in Europa.
    Ha ricevuto dalla Natura una invidiabile leggerezza per affrontare tematiche leggere e profonde e di saperle destreggiare senza alcun sforzo: il Nulla e il Tutto per lui non hanno segreti e misteri: lui li avvolgere li fagocita per ricavarne pretesti ad ancora comporre. E straordinario è l’ultimo verso ” Non ho più una morte degna di vivere: non mi resta che dormire!”, dove l’ossimoro e la metafora soggiacciono al volere del poeta per generare la Bellezza di un pensiero in poesia.
    Non posso che augurargli di scrivere ancora centinaia di versi, e sono sicuro che saranno di altissimo pregio.
    P. E.

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  3. Una poesia che fluisce libera come un torrente di montagna, trascinando il tempo con se.
    Tutto cambia col tempo, le cose vissute nell’infanzia non ci sono più, però sono apparse cose nuove. Si dice addio alla casa materna per avventurarsi in una ricerca, in una “quest”, oltre “le rovine circolari” , anche “negli stazzi tra i grugniti”, scivolando oltre l’eternità “che è una perdita di tempo” come l’eterno ritorno. Quello che si cerca è ancora una visione gioiosa e libertina per la propria poesia, nonostante le malinconie e “il corpo che si decanta come un unto lenzuolo”.
    Mi sono chiesto quale potesse essere la sinfonia evocata più volte nei versi, mi sono risposto che potrebbe essere la numero 8 di Mahler, quella dei mille, in particolare la prima parte “veni creator spiritus” un’invocazione al proprio sé “per (continuare ad) approdare ai propri destini”.

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