Giancarlo Locarno: Padre Lardo

Il cortile _ foto di famiglia_G_Locarno

Padre Lardo

Il cortile è anche un rifugio, un nido sicuro che proteggeva noi bambini dalle creature bizzarre che scorrazzano per il paese, queste per fortuna non erano poi così numerose, ma ciascuna manifestava per la strada la sua bislacca eccentricità.

Una di queste era il Càcia Luisìn.

Quando arrivava le donne si divertivano a spaventarci.

Volevano insegnarci che fuori dalla tana del cortile, il mondo, era pieno di pericoli.

Allora gridavano:

 “Arriva! Arriva! il Càcia Luisin… Scappate!…Scappate!”,

e noi bambini ci rifugiavamo in casa.

Arrivava dal trani del San Gratòn, preceduto da tristissimi ululati  prendeva la ciucca e andava a smaltirla in piazza dai paolotti nel circolo della democrazia.

Anche il  Padre Lardo, che anch’io ho conosciuto da piccolino, mi impauriva così.

Aveva una lunga barbona bianca, portava i sandali, scalzo anche in inverno, e il saio che per me era una gonna, ai miei occhi lo rendeva una figura mitologica metà uomo e metà donna, così quando arrivava stringevo il ciuccio con le labbra e la gonna di mamma con le mani, e lo scrutavo con i lucciconi negli occhioni spalancati  attenti e impietosi.

Era un frate cercatore, di quelli che adesso non ci sono più. Agglutinata al saio sporgeva una capace scarsella, entrava nei cortili un paio di volte all’anno, e qualsiasi cosa gli venisse offerta la prendeva con un sorriso di ringraziamento, un pezzo di salame o di formaggio, del pane o della verdura, tutto il racimolo finiva in quel sacco.

Diceva di non essere molto bravo nella raccolta, favoleggiava di un frate tedesco detto Padre Lardo che ad ogni giro raccoglieva di che sfamare un paese.

A furia di sentire questa solfa, per i soprannomi i paesani sono terribili, hanno cominciato tutti a chiamarlo Padre Lardo.

Mamma raccontava  che durante la guerra, nel 43, ha visto la nonna e il nonno che discutevano un po’ animatamente dopo una sua visita, nonna gesticolava ma parlava a bassa voce, nonno con le mani a campana sul tavolo diceva:  “No!” a voce alta sollevandosi dalla sedia alternativamente verso la nonna col suo naso prominente come se volesse beccarla.

Ha saputo poi, che il frate, com’era sua abitudine, senza troppi giri di parole aveva chiesto a nonna di ospitare una famiglia ebrea per qualche mese, padre madre e una ragazzina dell’età di mamma che venivano dal Monferrato e che avrebbero dovuto poi fuggire in Svizzera.

Mio nonno aveva qualche titubanza, temeva di essere spiato perché era un socialista. Tanti anni prima spadroneggiavano i picchiatori fascisti della disperata, una masnada specializzata nell’assaltare le case del  popolo e anche i comuni con la giunta socialista. Erano abituati a non trovare resistenza, ma quella volta a Cardano si sono ribellati, c’è stata una sparatoria e c’è scappato il morto, il loro capoccia appunto.

Poi c’è stata la vendetta, che ha coinvolto anche mio nonno, anche se non c’entrava niente, gli hanno bruciato la casa e ha perso il padre.

Da allora, scuorato, cercava di non farsi notare, guardava di sguincio i divisori e rasentava i muri. Nel caso specifico paventava  che se fosse arrivata una squadraccia da lui, avrebbe potuto coinvolgere anche loro, compromettendone la fuga, o viceversa, se per caso acchiappavano loro, se la sarebbero presa anche con lui.

Però alla fine ha accettato e li ha accolti, anche se bestemmiava e cattava la ciucca, in fondo mio nonno è sempre stato un brav’uomo.

L’unico posto dove potevano alloggiare era la cà de drè, un locale a nord, buio, dietro la cucina, che serviva come ripostiglio, nei cortili non c’erano le cantine, e quel tipo di locale le sostituiva.

Doveva essere pulito tutto, mio nonno ha tirato un filo elettrico per portarci una lampadina, non c’era l’interruttore, la lampadina doveva essere avvitata e svitata.  

Come arredamento c’era una vecchia credenza e un canterano  che sono stati rimessi a nuovo.

Il Padre Lardo aveva recuperato degli strapunti che servivano per comporre il letto, anche delle sedie e un tavolo. Si era anche assicurato di avere la complicità degli altri  abitanti del cortile, era impossibile nascondere anche a loro la cosa visto che si era come in una piccola comunità, ma questa era la sua specialità, rimanere in equilibrio come un funambolo tra forze contrastanti, una che tira di qua l’altra di là, e alla fine tutto andò in porto.

Tanto che una vedova portò i cuscini e perfino i vestiti del marito, chi poteva regalava  qualcosa, il secchio per le abluzioni, una piccola stufa, uno specchio, perfino un trumeau e tante altre piccole cose che potevano rivelarsi utili nella quotidianità.

E poi c’era la cucina economica di nonna, uno strumento completo e indispensabile, duttile e polivalente.  Non bisogna lasciarsi ingannare dall’aspetto di una stufa, era molto molto di più. Il piano aveva una serie concentrica di anelli di ferro rimovibili, secondo le dimensioni delle pentole che si volevano usare per cucinare, sul lato destro c’era un contenitore estraibile per l’acqua calda, che così era sempre disponibile. La cucina economica serviva in inverno per  riscaldarsi e anche per cucinare, d’estate invece per quest’ultimo compito si usava un fornello con la bombola del gas. Aveva anche il forno, sotto il quale si depositava la cenere, che poi si doveva buttare. Nonno mi ha insegnato a mettere le patate ancora con la pelle nella cenere calda, così cuocevano e una volta pronte si pelavano e si mangiavano, una vera leccornia. Il tubo di scarico della stufa prima di entrare nel camino passava dalla camera da letto al piano di sopra attraverso un buco sul soffitto, così la riscaldava.

Fuori in cortile, c’erano due cessi, uno nuovo, costruito sul vecchio distrutto da una bomba, vicino c’è l’aeroporto della Malpensa, che spesso veniva bombardato, quando sbagliavano mira qualche bomba finiva nei cortili, quella ci era  finita proprio sopra, l’altro era una vecchia turca, loro usavano sempre quest’ultima, forse perché non volevano disturbare troppo,

Sono arrivati una sera accompagnati dal Padre Lardo.

L’uomo aveva la barba, occhialini rotondi e indossava un giamberghino per sembrare elegante, magro quasi malazzato, dicevano che facesse il professore, non so di cosa.

La mamma mora coi capelli ondulati appariva di un’eleganza naturale anche indossando vesti modeste, sembra che insegnasse a suonare il piano.

La bambina, mi diceva nonna, che assomigliava tanto a mia mamma, infatti hanno fatto subito amicizia.

Nella borsa avevano un candelabro con tanti bracci che hanno messo sul canterano vicino alla bibbia  che  leggevano insieme la sera.

Per mangiare non c’era problema, mio zio ogni mese andava in bicicletta fino a Novara per comprare un sacco di riso al mercato nero.

E un piatto di polenta non mancava mai, allora tutti avevamo un campo di granoturco, e un’aringa appesa al soffitto.

E poi ogni tanto qualcuno portava qualcosa di pregiato come un pollo, e quattro soldi per il lesso nei dì di festa saltavano sempre fuori.

Le cose procedevano bene, il marito si prestava a tanti lavori utili nel cortile, come maneggiare il ventilabro o sgranare il granoturco, per questo si usava una macchinetta, dove si infilavano le pannocchie, e girando una manovella il meccanismo interno separava i chicchi dai tutoli. Anche la moglie si dava da fare, lavava i panni, allora si usava una vasca di sasso e tutto si faceva a mano.

Si erano anche offerti di dare delle lezioni a mamma, ma lei lavorava già nella filanda con nonna, e non ne voleva sapere di studiare, qualsiasi cosa per lei era sempre un’uffa, era una piccola selvaggia, a differenza  della ragazzina, che si chiamava Esterina, e seguiva attentamente le lezioni dal padre, non potendo andare a scuola.

Appena poteva mamma la traviava distogliendola dallo studio, la portava a  scavalcare il muretto che separava il cortile  dalla libera vastità dei prati dove si incontrava con le sue amiche.

Una volta mentre erano sole a chiacchierare sentono dei colpi verso la Malpensa, dove bombardavano e mitragliavano l’aeroporto militare.

Poi improvviso si avvicina un aereo che punta su di loro, mia mamma mi ha detto che vedevano in faccia il pilota, si sono abbracciate forte perché pensavano che fosse finita, che le mitragliasse, invece poi è risalito e se ne è andato, sicuramente si era accorto che si trattava solo di due ragazzine.

Tutto procedeva tutto sommato tranquillamente, e i pochi mesi si erano ormai dilatati in due anni, siamo all’inizio del quarantacinque.

Ma adesso le cose stavano cambiando, i fascisti cominciavano a diventare cattivi, capivano che il loro tempo era scaduto, perento, esaurito. Un brutto giorno un gruppo di cinque partigiani divallato dall’Ossola aveva catturato nei boschi un ragazzo repubblichino, che faceva da vedetta, uno di quelli  che cercavano di avvistare i partigiani che scendevano dalle montagne per passare qualche giorno a casa, per poi catturarli. C’era chi proponeva di ucciderlo subito, chi pensava di tenerlo prigioniero e poi liberarlo quando non fosse stato più pericoloso, alla fine avevano preso quest’ultima decisione.

Ma la notte il ragazzo è riuscito a scappare, ed è corso dai camerati a denunciare il fatto, insomma, sono riusciti a prenderli tutti e li hanno fucilati subito senza processo alla cascina Brebbia.

Il giorno dopo quelli delle brigate nere hanno cominciato a rastrellare gli uomini, per obbligarli ad arruolarsi, ma anche per spedirli in Germania, in una di queste retate mio zio è finito a Dachau.

C’era allora un comando tedesco dell’ aviazione, molto importante all’interno dell’Aeroporto di Malpensa, perché lì atterrava il bombardierre SIAI Marchetti sm79, “il gobbo maledetto”, l’aereo italiano più avanzato. Il comandante, il colonnello  Kavela aveva fama di essere una brava e colta persona, un militare di vecchio stampo, non come le esse-esse. Sembra che la moglie di un rastrellato, preso mentre tornava a casa dal lavoro in bicicletta, sia corsa ad avvertire Padre Lardo, che a sua volta è corso dal comandante tedesco.

Fatto sta che è successa una cosa incredibile, stentavo a crederci quando mio padre me l’ha raccontata, sono arrivati i soldati tedeschi coi camion, armati in assetto di guerra hanno circondato i fascisti e hanno ingiunto loro di lasciare andare a casa le persone catturate e gli hanno anche sequestrato i camion.

I fascisti scornati, ridotti a uno stormo di corvacci neri e per di più appiedati si sono asserragliati nella casa del fascio, ad attendere il 25 aprile come ratt de colmegna. Mio papà sedicenne che andava con la brigata Garibaldi ad aiutare a rimuovere le macerie dopo i bombardamenti, è stato testimone di quando i partigiani li hanno tirati fuori, alcuni li hanno uccisi subito, papà diceva che i più pusillanimi piangevano perché non volevano morire, altri mantenevano una guardata di fronte sprezzante fino alla fine. Tanti altri invece ritenuti brava gente sono stati lasciati andare, tra questi c’era il marito della sorella di nonna, nonna ha sposato un socialista, sua sorella un fascista, così andavano le cose. La mamma di uno dei giovani partigiani rastrellati e fucilati ha voluto uccidere personalmente l’assassino del figlio, gli ha sparato, e dopo che era morto piangendo tra la rabbia e la disperazione prendendolo per i capelli gli sbatteva la testa sui gradini.

Lo stesso giorno, mamma, che ancora non conosceva papà era affacciata alla finestra del secondo piano che dava sulla strada principale di Cardano.

Guardava la strada chiacchierando con un’amica, quando ha visto passare un giovane soldato tedesco spaventato e disorientato, che camminava dinoccolato e cercava il comando, che ormai si era dissolto, secondo mamma diceva qualcosa come : “isde befel?… Kommand?”.

Mamma se lo ricorda ancora oggi, dice che era giovane, biondo e molto bello.

E’ passato uno in motocicletta e gli ha tirato una bomba a mano, mamma ha visto tutto, una lusnada, il tuono e il sangue che schizzava dappertutto.

Per lei quello è stato l’orrore massimo della guerra, non quello che ha patito la sua famiglia, non quello che hanno fatto a suo padre, ma l’orrore, il significato della parola guerra impresso nella mente è scaturito dalla morte, ormai inutile, di quel ragazzo. Non so quante volte me l’ha raccontato, anche adesso che ha novant’anni e ha perso la memoria per tante cose, quello se lo ricorda ancora, mi ha detto anche nome e cognome dell’uomo della bomba, che poi lo vedevo tutti i giorni passare in bicicletta per il paese, quando andavo a scuola veniva a prendere la nipotina, mi sembrava strano, innaturale,  che una persona dall’apparenza così pacifica avesse potuto fare quella cosa così vigliacca, mi dava la sensazione che dentro le persone, e quindi anche dentro di me, ci fosse un mostro addormentato che ogni tanto inaspettatamente potrebbe risvegliarsi.

Anche davanti a mio nonno hanno portato quello che gli ha bruciato la casa tanti anni prima, gli hanno detto che se voleva poteva ucciderlo, mio nonno non ha voluto e ha detto di lasciarlo andare, che ormai era passato troppo tempo (ho una visione di lui che parla scuotendo il nasone e agitando il braccio destro come per svolazzare).

Per questo sono sempre stato fiero di mio nonno, questa era una di quelle tante cose brutte che avevano costellato la sua vita e delle quali in casa non ha mai voluto parlare.

Lo chiamavo nonno Seneca perché aveva delle sue concezioni morali guida e un senso del dovere simboleggiato dagli scarponi militari della prima guerra mondiale che custodiva come una reliquia sotto il letto, quasi aspettasse uno squillo di tromba dal generale Cadorno che lo richiamasse all’assalto. Spesso citava un proverbio: “Spalà nev e mazà gent \ l’è tut un laurà par nient”, perché diceva, la neve ricade e la gente continua nonostante tutto a nascere.

Qualche mese dopo, finito il trambusto del 25 aprile Padre lardo è arrivato in automobile con il Giùnord alla guida, era il maggiordomo di una famiglia ricca, una delle poche che in paese disponevano di una macchina, nonna insinuava che non avesse la patente, e che non sapesse nemmeno guidare, mamma ricordava che prima della guerra aveva chiesto a mio zio Stefano di salire con lui su un’auto per provarla, sono partiti, e poi non riuscivano più a fermarla, hanno continuato a girare in tondo per il paese, mio zio agitava un fazzoletto bianco fuori dal finestrino per segnalare il pericolo, finché non è finita la benzina e finalmente la macchina si è dovuta per forza fermare.

Comunque si vede che poi ha imparato, hanno caricato Esterina e tutta la famiglia con le loro poche cose e poi hanno imboccato la statale  del Sempione. Si è saputo in seguito dal Giùnord che sono riusciti ad entrare in Svizzera sani e salvi. Un paio d’anni dopo, ma forse anche di più, è arrivata a mamma una cartolina di ringraziamento da Esterina che proveniva da Israele, ma non si ricorda più da quale città.


Una risposta a "Giancarlo Locarno: Padre Lardo"

  1. Grazie a Giancarlo per questo bellissimo racconto, nell’80° anniversario della Resistenza. Racconto necessario in questi tempi di rimozioni e “revisioni”.

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