[…]… Cristina Bove sta sempre in bilico sull’abisso del proprio esserci. Una ipotesi che coniuga quell’esitazione fra suono e senso che Valery indica come carattere saliente della poesia, con la sua funzione primaria di testimonianza e terapia della finitudine e precarietà dell’essere al mondo insieme ad altri. Una poesia della soglia, dunque, e del filo: liminale e sorvegliata… […]Il dettato di Cristina Bove è danza graziosa sull’abisso che si intravede nella luminosa trama (nell’ultrasenso e nell’oltreluce) delle sue figure, nel chiaroscuro impeccabile, dei suoi versi.
cit. Giuseppe Martella su “Poesia” di L. Sorrentino
***
“Penso che la poesia sia un tentativo di sublimare la realtà usando la parola come significato e significante di stati di coscienza che risultano a volte sorprendenti anche per chi scrive. È come se intervenisse l’aspetto misterico della condizione umana a riproporsi nei momenti più densi di emotività o di lucidità, in una sorta di scissione tra l’agire e il pensare, una modalità in cui l’ispirazione trasforma il sapere in sentire e viceversa, momenti in cui sembra che non si esista solo in questa dimensione nota, ma che si appartenga a una vastità immensa e sconosciuta, altrettanto reale “.
cit. Cristina Bove (dall’intervista su LPELS)
*
img “stagno” by criBo da “Riflessi e Visioni“ sito dedicato di Cristina Bove
*
Sapersi limite
è presupporre l’oltre
per quanto inconcepibile
e noi dispersi in particelle quantiche
interrompiamo il viaggio delle forme
per inoltraci come puntiluce
in un eterno ignoto
*
Paradossale
Scrivere e cancellare
usando una tastiera
è quasi una risacca di biancore
che assale le parole
le trascina
nel cestino di tutte le smemorie
si manifesta ciò che non si dice
si esplicita l’assenza
e si asseconda la malinconia
stendendo un velo sull’immaginario
davanti ad uno schermo che ci osserva.
Questo è quanto
per me che penso e subito accantono
redigo il vuoto implicito
abbandono
*
Parametrica
è scalpiccio di frasi
piedi e rime
giro di versi in una stanza
anacoluti in tessere
iperboli in caduta effetto domino
una di me raccoglie cocci e sassi
vocaboli calati terminali
placebo alle ferite
analgesia da camerate
l’ineffabile
contagia di mistero i resistenti
li ammala di rimpianti
per luoghi ipotizzati ultraterreni
ricordi provenienti dal futuro
li assiste nella logica stringente
_nessuno ne esce vivo_
li prepara
con terapie d’intensa inefficacia
all’ultima sconfitta
*
In solide apparenze
nello spazio di vita in cui m’aggiro
l’aria è una sinfonia di oggetti e quadri
_esistono nel mentre che li guardo_
prima non c’eravamo
né l’osservato né l’osservatore
in quel contesto
i sensi
attivano perimetri di casa
_il pavimento, quando ti distrai
sparisce in un bisbiglio di piastrelle_
il camminare origina pareti
crea le porte
attraversarle è un gioco di respiro
in un continuo andare e ritornare
dai labirinti della mente al suolo
un filo alla ricerca d’Asterione
e l’io
eroe perfetto della decadenza
è il mito di se stesso
il narratore delle sua esistenza
*

*
Forse si cerca quel che già si sa
Desideravo il massimo chiarore
il senso naturale, il nesso originale
ma tutto ciò che penso dico scrivo
ha il marchio del già dato
un minestrone estetico antologico
il rimessaggio d’ogni mente umana
dal paramecio al genio einsteiniano
e nell’affioramento di nozioni
annaspo in nubifragi di parole
_sento gridare il mondo e i suoi dolori_
mi lascio attraversare dalle voci
i volti amati, i vincoli sbiaditi
siamo la sabbia e il mare
la riva del passato continuamente erosa
tutti presenti nella stessa storia
d’un futuro anteriore
*
Se tenessimo il mondo nella mente
pure sarebbe solo un punto
nell’infinito stratosferico
la misteriosa ubiquità dell’ente
_essere il dentro e il fuori del cervello_
il cranio un puntaspilli di capelli
conduttore d’elettrici pensieri
e fuori il santo prato di faville
la ronda delle idee tradotte in pixel
se ci scoppiasse l’anima di luce
forse saremmo sparpagliate
minuscole comete
a fare un cielo altrove
*
non un suono pronuncia il disordine
il vedere chiassoso impagina murales
_nel disimpegno lungomare_
strade con solo un margine
dall’altro non finisce e non si va
ci si trattiene a viversi di lato
tralasciati da punti in sospensione
in un bizzarro ritenersi astanti
le superfici espongono palazzi
come fossero veri
_le pareti si fingono distanti_
e non si appare che vestiti vuoti
appollaiati alle finestre
vapori a fil di vento
a tessere giornate in spazi assenti
città dipinte nei colori onirici
intorno a tutti i sé temuti e amati
_ci si può stare in tanti_
suggeriscono strade sul confine
oltre le cose conosciute e solide
varchi da cui si possa intravedere
un altro esistere _forse_
Aveva occhi di mare
muraglie d’acqua e scogli
l’abisso dei perduti smessi
di se di ma di non di forse e quando
esperti a fiocinare la sua barca
nottate perse ai t(r)asti.
Una sventata coda di sirena
eccola giunta
palpitante nel centro delle squame
non sa che tra millenni
diventeranno piume.
Intanto sono sorde le sue spalle
a schiume di tempesta
Ha voce il buio
di bùccina soffiata
entra nel cavo degli scalmi
i palmi incatenati a gassa doppia.
Nodi da vecchi lupi di marina
inchiodano le grida sui fasciami
*
Dalla riva testo di Cristina Bove con elaborazione musicale
*
Eonica
Io non sono un’artista, piuttosto un’artistoide, parola che associo ad asteroide: nel suo sfiorare la terra senza raggiungerla, somiglia al mio rasentare l’arte senza appartenerle.
Ho dato vita a cose che non c’erano (unica e ineguagliabile realizzazione i figli), ho dipinto stranezze, espresso pensieri che ovviamente sono confluenza di pensieri già pensati, perdonate il bisticcio di parole, da tutte le menti che mi hanno preceduta su questo pianeta.
Quasi mi sento un fossile, un’impronta appena accennata, una testimonianza minima, che va scomparendo.
Miliardi di esseri umani sono esistiti e scomparsi senza lasciare traccia, eppure sono stati tutti portatori del mistero in cui tutto si realizza.
Come ogni essere e cosa esistente nell’universo, anche io sono la particella di un infinito advenire e divenire.
E dunque senza ciascuno di noi il Tutto non sarebbe tale, essendo mancante di quella frazione infinitesimale che ogni elemento, dal subatomico al macroscopico, apporta al suo consistere.
Ho fatto una capriola immaginaria, mentre scrivevo fin qui, un capovolgimento che mi ha catapultato fuori dalla stanza: ero un quanto rocambolesco, autoirriverente, nello spazio interstellare.
Come fare a prendermi sul serio?
Io non lo so. Ma gioco
*
Una donna di marmo nell’aiuola (Campanotto editore 2019). Alcuni dei siti in cui è presente: “La Poesia e lo Spirito, La Dimora del tempo sospeso, Neobar, Blancdetanuque, Filosofi per caso, Versante ripido, La Recherche, Muttercourage – Anna Maria Curci, Carteggi Letterari.

grazie infinite di questa bellissima presentazione! ❤
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è sempre bello ritrovarti Cristina!
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Bella la rappresentazione dei paesaggi interiori di Cristina, sembrano scomporsi nei loro elementi atomici e quindi ricomporsi in modo continuamente differente. Lo stesso fanno le frasi delle poesie, che si frantumano nei loro elementi atomici che sono le parole, che vengono proiettate negli spazi della realtà quotidiana e si ricompongono in una intuizione.
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grazie mille Giancarlo!
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grazie mille Giancarlo!
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grazie anche ad Abele Longo!
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Tutte poesie intense e raffinate, scritte con l’anima!
Anche il testo messo in musica è meraviglioso.
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grazie mille, Luisa cara!
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🙏🤗🙏
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gazie, Luisa cara!
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Grazie a te, cara Cristina 💓
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non scopro certo adesso la poetica espressiva di Cristina Bove, ma qualche rifrazione circa questi inediti preme aggiungerla: l’autrice fa delle parole un uso alchemico, pesato al milligrammo, senza però prestare il fianco all’elitaria tentazione dei Poeti “ch’uggiolano onani versi / nel mentre sfoggiano virtù autoerotiche”…
: ))
“sa/persi limite” è già un superamento interno del confino umano fin dal titolo: a ruota della consapevolezza (il fatto di sapersi), c’è già lo smarrimento che è ipso facto *errare oltre*, un ritrovarsi dis/persi nel flusso di parole lanciate nello spazio, per loro intrinseca natura immateriali (“puntiluce”), un flusso pronto ad aprirsi a ventaglio verso l’altro (e verso “l’oltre” della comunione/comunicazione). un incontro che, almeno per il nano, è soprattutto un qui e un adesso: “eterno” sì, ma eterno *ritorno*, mi viene da pensare, ossequiando zio Federico.
lo stesso dicasi in “parados/sale”: nel mentre si dissemina sulle ferite, descrive una bruciante situazione di afasia. con le smemorie, finisce nel cestino ogni parola e il bianco as/sale nuovamente il verso nello schermo (lo vedo trasformarsi in un’ameba candida, che avanza pseudopodi e ingoia passo passo ogni pensiero, sillaba, grafema). la fagocitosi del blob (dei blog, e della rete) in fondo è anche questo, è la contemplazione di un’assenza “davanti ad uno schermo che ci osserva”. ottima e stimolante la doppiezza di “abban/dono” in chiusa: rinuncia, ma anche accoglienza verso il vuoto che in fondo ci dona tutta la potenzialità dell’eterno *rinizio* (tesi e antitesi di quanto più sopra)
“parametrica” è una sorta di ritratto analitico chiamato a fare il punto (ovvero ad assegnare coordinate al mondo soggettivo) studiando la funzione di misure per definizione inconciliabili quali vita e morte (o anche esistenza e desistenza). ad una prima strofa che comunica vitalità quasi ingenua/infantile, ne segue una che parla di vecchiaia e malattia (“vocaboli terminali”, “placebo”, “ferite”, “analgesia”): dalla vita, come pure da un centro di cure palliative per malati terminali, “nessuno ne esce vivo”. la chemioterapia della parola è anch’essa “intensa inefficacia”, eppure… se i cocci che raccogli hanno spigoli affilati, scagliandoli con forza verso il *niente* puoi farlo sanguinare (è già *qualcosa*, no?)
in “solide apparenze” l’ossimoro del punto di flesso tra soggetto e oggetto prova a dare un senso ai sensi. l’esistenza del tangibile che *appare* a chi la percepisce è un attimo, eppure in chiave soggettiva è l’infinito, il tutto, che ci sperde in “io che vagano” nel labirinto egoide egocentrato in cui Narciso è il solo “mito di se stesso”, un sorriso smagliante in posa autoreferente che sfoggia decadenti perfetti. sebbene ci sia sempre la speranza che chi “crea le porte” sia in grado poi di aprirsi verso l’altro, la netta prevalenza di girevoli (in un continuo andare e ritornare) ci porta spesso al punto di partenza: sono io. sono io che vagano. specchio riflesso del ti tocco-mi tocco (ohi… tocco io lo sono di sicuro, specie quando sembra che stia delirando, eh eh…)
“forse si cerca (etc)” ha un verso che non mi convince: l’Einstein genio storpia la cadenza della metrica e inceppa luogocomunista. a pelle, mi permetto di proporre “godeliano” vs “einsteiniano” per le ragioni che qui elenco: in primis gode/liano; poi perché Godel morì consumato dai suoi disturbi paranoici finendo per pesare 30 kg (l’impossibilità e la paura di essere avvelenato lo divorarono); infine perché Einstein stesso, di 27 anni più vecchio, disse che Godel era il più grande genio che avesse mai incontrato e di essere onorato di poterlo frequentare (e tutti invece lo obliamo). ordunque, spezzata una lancia semiseria in favore di Godel, riprendo il filo. bella l’idea di cercare non il peccato, ma il “nesso originale” (che in fondo poi coincidono) in cui siamo tutti presenti e tutti siamo enunciazione in divenire: il passato alle spalle (a fotterci da tergo) e il futuro non ancora verificatosi (nel momento in cui gli diamo voce) incarnano perfettamente il nostro essere qui nell’ora, ovvero, rispettivamente, malinconia/delusione e speranza/aspettativa. direi che forse sì… siamo e cerchiamo “quel che già si sa”: siamo e cerchiamo tutti una storia che ci racconti. in ogni senso.
“lucciole mimetiche” mi fa pensare a Pasolini, che spesso s’accovaccia accanto ai miei pensieri, ultimamente, e scrisse la “scomparsa delle lucciole” (cosa che forse m’impedisce di godere appieno del tripudio luminoso e sparpagliante del covone di pensieri sparato nello spazio stratosferico d’un prato). in ogni caso, più d’ogni altra cosa m’ha colpito il “doppiofondo” minimale, nascosto nel comete (come/te), che mi comunica qualcosa d’infinitamente piccolo e fraterno, saldando insieme il titolo col verso (“lucciole mimetiche” / “minuscole come te”). adorabile big bang dell’anima che dà origine all’elettricità della mente… eh, in effetti, come amo dire, m’assale spesso il dubbio: la mente è il cervello o il cervello mente? chissà…
c’è un lungomare in “casa morgana”, che funge da volano per l’immagine d’un limine: “strade con solo un margine” è un verso potente che comunica da un lato della strada il brulicare vivace d’una località di mare, dall’altro lato della strada un esistere diverso (forse) coincidente con la vastità di un orizzonte che si estende oltre la spiaggia. è allora che la nostra vita appare borghesiana “finzione” (bidimensionale il murales, sospesi i punti, vestiti i vuoti appollaiati alle finestre, vapori e spazi assenti)… un distillare l’essenza dell’assenza che è funzionale a tutti i sé (solipsistici) a tutti i se (alternativi) che convivono distrattamente (“viversi di lato”) senza condividere davvero nulla se non l’attesa. parafrasando Buzzati, il lungomare dei Tartari.
a ruota arriva “dalla riva” una pulsione evolutiva (da pesci a uccelli) che sale dagli abissi e trova il molo con le grida dei gabbiani (che suonano come vagiti). c’è tutto il gioco della vita in quel “fasciami”, che evoca un neonato in fasce insieme alla preghiera di tornare (per l’appunto, in fasce). se “lungomare” guarda all’orizzonte, in “dalla riva” è proprio il bagnasciuga il nucleo dell’azione: non c’è la vastità del mare a fare da contralto, ma il punto di pas/saggio (il saggio sa benissimo di non sapere “tra millenni”… proprio come ora!) al *centro* delle squame. e arriva il buio, a riva, ma senza che comunichi paura, sebbene non esista via di fuga… è più un richiamo (la bùccina), un soffio musicale che s’insinua spingendo granelli di sabbia negli “occhi di mare”.
ecco… e questo è quanto. un abbraccio a Cristina Bove che ha voluto accompagnarmi con le sue parole in questo stimolante gioco rocambolesco che è il condividere un coriandolo di spazio interstellare. grazie di “quore” dal nano.
: )
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Posso dire che mi sono sentita davvero “compresa” nella tua pertinenza intellettiva straordinaria, Malos Mannaja, e che ho appreso dalla tua generosa analisi qualcosa del mio esprimermi in versi che io stessa non avevo notato.
In effetti questa è una dimostrazione nietzscheiana che siamo immersi in una realtà fatta di infiniti ritorni o, in maniera più attuale e scientificamente provata, di un entanglement quantistico che unisce non solo le particelle ma anche le emanazioni delle menti singole in una complessità universale.
Anch’io ti conosco da molti anni, tuttavia mi rimprovero di non essermi soffermata che a tratti sulla tua originalità letteraria.
Per quanto riguarda la sostituzione gödeliana, ci sto, e mi rammarico di non averci pensato, visto che avevo letto in passato quel magnifico libro di Hofstadter “Un’eterna ghirlanda brillante”.
Pertanto, non posso che esserti grata del consiglio e di aver prestato “ascolto” a questi testi.
Vorrei che tu sapessi che aver dedicato la tua approfondita attenzione ai miei significati per me ha un valore inestimabile.
Grazie.
cristina
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non so perché viene pubblicato due volte il mio commento.
forse sbaglio qualcosa.
Intanto ne approfitto per ricambiare l’abbraccio a Malos
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Ho tolto il secondo commento, Cristina. Grazie di cuore per questi tuoi inediti. Malos ha colto bene sul tuo uso “alchemico, pesato al milligrammo” della parola, su queste tue riflessioni illuminanti sulla scrittura.
Un abbraccio,
Abele
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Grazie, caro Abele!
un abbraccio
cristina
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