Plinio Perilli: HOLLYWOOD ODIOSAMATA (8) – La cosiddetta beat generation…

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8 – La cosiddetta beat generation…

Già urge e bussa, strepita e s’impenna, viaggia e sballa, from coast to coast, la cosiddetta beat generation, i suoi scrittori liberi e libertari, coi loro libri-film ad alto tasso di visività e dinamica, urgente, autobiografica romanzerìa… Una generazione davvero On the road (1957), come l’indomato, anarchico capolavoro di Jack Kerouac: “L’autobus giunse a Hollywood. Nell’aria grigia, sporca, come quella in cui Joel McCrea incontra Veronica Lake in una trattoria, nel film I viaggi di Sullivan, lei mi dormì in grembo. Guardai avidamente dal finestrino: case di stucco e palme e cinema all’aperto, tutte queste cose pazzesche, la rozza terra promessa, il fantastico estremo limite dell’America. Scendemmo dall’autobus in Main Street, che non era diversa dai posti nei quali si scende dall’autobus a Kansas City o a Chicago o a Boston: mattoni rossi, sudiciume, macchiette che ti scivolano accanto, filobus che stridono nell’alba senza speranza, l’equivoco odore di una grande città.”

Sulla strada, in parallelo, anche il gigante americano iniziò a scuotersi, a guardarsi dentro, a criticare il suo immenso, perfido puritanesimo… Furono proprio certi attori, a far fare il salto. I migliori dei giovani di allora, talentuosi e progressisti…

Il Marlon Brando de Il selvaggio (1954, di Laszlo Benedek), Un tram che si chiama desiderio (1951, di Elia Kazan, dall’agre pièce di Tennessee Williams). Ma anche “Monty”, il Montgomery Clift di Un posto al sole (1951, di George Stevens, con Elizabeth Taylor e Shelley Winters), era stato importante, primo forse divo/controdivo, complessato e fulgido, travagliatissimo bisessuale, com’è ormai notorio.

Brando entra di colpo nell’Olimpo del teatro e del cinema con un aplomb, un piglio (e cipiglio) di rara intensità. “Oggi si fa apprezzare soprattutto per il fascino visivo” – annota Mereghetti sul Selvaggio) – “(indimenticabili le immagini frontali dei motociclisti sulla strada), l’asprezza stilistica, l’efficacia della contrapposizione tra i borghesi bacchettoni e i teppisti strafottenti. Brando in giubbotto nero divenne un mito internazionale, ed entrò a far parte dell’inconscio collettivo – come dimostrano i diversi quadri che, pochi anni dopo, gli dedicò Andy Warhol”.

“Clift, Brando e Dean” – testimonia Fofi – “dettero a questa generazione un volto e una psicologia, modi d’atteggiarsi e muoversi e di vestire e parlare, attraverso avventure non sempre molto catartiche e in grado di esorcizzare il disagio collettivo di quelle ‘classi di età’. Ci troviamo in quegli anni in società chiuse nella loro guerra ideologica a esaltare di sé un presunto equilibrio e una presunta giustizia (il migliore dei mondi possibile, il paese della libertà) totalizzante e definitiva. Ci troviamo di fronte a ideali che non si possono condividere – perché se ne conosce da vicino l’ipocrisia e la bassezza. I padri ci dicono bugie, non hanno da proporci alcunché di autentico e nuovo.”

Su Clift “vincitore e vinto” c’è un’ottima biografia scritta da Michelangelo Capua, avvincente come un romanzo, e che racconta – come recita lo strillo di copertina – “la storia di un uomo, idolatrato a Hollywood, ma sconfitto dalla vita”. Anche il suo contorto fascino bisessuale e la sua perspicacia recitativa furono ammirevoli. Egli aveva in vasta dose, e la denudava, l’autorevolezza dell’ipersensibilità: trasformandola in carica di verità, energia purificante, fragile travaglio di comprensione… “Monty è l’attore più emotivo che io abbia mai conosciuto e la cosa è contagiosa.” – rievoca Elizabeth Taylor in uno struggente memoriale nel ’64 – “Quando iniziava a tremare, io iniziavo a tremare. Solo lui e Richard [Burton] arrivano a questo punto, è quasi una cosa fisica, un cordone ombelicale, una scarica elettrica.” “Approfittando della loro complicità e dell’affiatamento George Stevens riuscì a filmare delle scene d’amore straordinarie,” – Capua sta raccontando il già mitico set di Un posto al sole, tra l’autuno e l’inverno del ’49 – “fra le quali un memorabile primo piano nel quale Elizabeth maternamente sussurra a Monty: ‘Tell mama… Tell mama all’ (‘Dillo a mamma. Dì tutto a mamma’, dialogo andato perso nel doppiaggio italiano, perché tradotto con un banale ‘Dimmelo George, dimmelo’).”

Circa il “mito” di James Dean, stella cadente d’un’intera nuova generazione, tre soli film gli bastarono per entrare anche lui sparato nell’immaginario, con la sua Porsche argentata schiantatasi in una corsa folle, e l’amore infelice, autodistruttivo, per Anna Maria Pierangeli, che pur amandolo finì depressa sposa di Vic Damone, per l’infelicità assicurata di tutti. Gioventù bruciata (1955), La valle dell’Eden (id.), Il gigante (1956) – sono il crisma, il fuoco e la cenere di quegli anni caparbi e maldestri, rintorcinati in una difficile ebbrezza da pseudoromanticismo giovanile nutrito di trasgressioni e tensioni, pulsioni e rimozioni… “Nel suo ritratto di dolore e smarrimento, James Dean spinse fino al limite estremo, per una generazione nuova,” – l’incornicia Donald Spoto in Rebel, che è il suo fascinoso, impertinente, infine frantumato ritratto – “l’idea che fosse giusto sentirsi insicuri, sentirsi a disagio sul presente e spaventati sul futuro.”

© Plinio Perilli, casa editrice Mancosu (Roma), 2009
® Vietata ogni riproduzione e/o uso del testo se non previa autorizzazione dell’autore.

 

 


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