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16 – Alfred, il prestitigiatore
Resta ora – e ce lo godiamo a parte – forse il mago più grosso, Alfred Hitchcock, prestitigiatore di Cinema quant’altri mai, stazza sigaro e aplomb da Maestro artista della regia commerciale; e potremmo far seguitare la gran saga fino ad un suo conscio o inconscio allievo, nipotino attuale, mingherlino d’immenso fiuto e talento, il quale negli anni ambisce a crescere e a raggiungerlo: stiamo parlando, per l’esattezza, di tal Mr. Spielberg Steven, da Cincinnati, Ohio, 1947…
Incondizionato Sire anzi Giove, Ambasciatore e Dittatore dell’horror (o, se è lecito il distinguo, del “giallo” thriller, della suspense psicologica più elegante, perfida e sottile), Hitchcock viene dall’Inghilterra: ma negli iperprofessionali Studios della California, o nei suoi trafelati, ansimanti esterni e inseguimenti, girati spesso in Europa – come sull’impero di Carlo V – davvero non tramonta mai il sole… Poco importa se l’effetto notte è comunque ottenuto dalle ombre dei riflettori…
“Nei suoi film, la sua figura preferita sembra essere la spirale, la serpentina…” – gli chiedono in riverente conversazione Jean Domarchi e Jean Douchet (intervista poi uscita nei “Cahiers” del dicembre 1959).
“È per evitare il cliché. Nella Donna che visse due volte, Stewart bacia la Novak poco prima che lei muoia, nella scuderia. Sarebbe stato banale fare dei primi piani. È il trattamento obiettivo della scena: da come recita, si capisce che la bacia. Ma così non va bene, è fuori moda. Bisogna sentire il momento, non vedere la scena. Per questo ho scelto un movimento circolare. L’emozione che sembra che provi la macchina da presa corrisponde al bacio. In questo modo, permetto allo spettatore di introdursi nella scena, creando un ménage à trois. Non cambio mai inquadratura durante una scena d’amore. Non devono esserci interruzioni in questo tipo di scena, perché non ce ne sono nella realtà. Lui non può far altro che guardare lei, occhi negli occhi, e intanto la sua mano sinistra ha altro da fare. La scelta di un’inquadratura unica permette di preservare la decenza.”
Hitchcock fa palcoscenico e teatro di posa di ogni piccolo o grande recesso dell’anima, risucchiandoci sempre in un castello fatato (il suo film standard) sempre pieno di fantasmi, trabocchetti, doppi che ci cullano o c’insidiano… “Nessun racconto di Doppi” – ha scritto un finissimo letterato come Paolo Lagazzi, affascinato dalla magia pura di ogni narrazione, preferibilmente eccentrica e fumista di (sovra)realtà – “ha saputo raggiungere nel Novecento una densità, una ricchezza di sensi chiari e segreti, una forza di riverbero mitico paragonabile a quella di Vertigo di Alfred Hitchcock (il titolo con cui il film fu lanciato in Italia è La donna che visse due volte). In questa storia arcana e bellissima, molte aporìe, molti nodi della coscienza moderna alle prese col tempo vengono al pettine: soprattutto il pathos della seconda volta arriva qui ad esprimersi nel modo più lancinante e ambiguo, più poetico e tragico.”
Addentrandosi dunque nella rapinosa complessità di Vertigo, ha ben ragione Lagazzi a sottolinearne – in puro, architettato intreccio romanzesco – la sua valenza di opera “in assoluto più labirintica nella storia del cinema. Da qualsiasi prospettiva l’osserviamo, questo racconto ci sfugge, suggerendo sensi e percorsi plurimi. Anzitutto non di una ‘semplice’ storia di doppi qui si tratta, ma di una doppia storia di doppi, poiché nella prima parte Madeleine appare la reincarnazione di Carlotta Valdéz, mentre, poi, Judy apparirà la reincarnazione (in senso degradato, volgare) di Madeleine. Preso nella fascinazione prismatica di un’imago femminile che non è mai la stessa, che è sempre più e meno di ciò che appare, Scottie sembra dapprima, nel suo stile tenero e perplesso, appartenere alla famiglia degli antieroi novecenteschi costretti a misurarsi con una storia più grande di loro. La vertigine in cui egli si trova a muoversi, il suo fluttuare tra reale e irreale, tra la vita e la morte, si esprime tanto nel suo modo di stare nello spazio (in seguito a un incidente egli soffre di acrofobìa, cioè di paura dei luoghi alti) quanto nel suo modo di abitare il tempo (in bilico tra il presente e il passato). Tutto, intorno a lui, pare studiato dal destino per creare una sorta di movimento spiraliforme e sfasato, un effetto di vacillamento. Hitchcock è magistrale nel rendere in termini visivi (insistendo sulle linee orizzontali, di pedinamento e fuga, e su quelle verticali, a strapiombo, delle inquadrature) il senso di spaesamento, di fiato sospeso in gola, che fa di continuo ondeggiare Scottie in un intrico di dubbi, di domande irrisolte.”
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© Plinio Perilli, casa editrice Mancosu (Roma), 2009
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puntate precedenti:
1 – L’inseguimento degli indiani alla diligenza
2 – Frank Capra: duro spaccato sociale e commedia rosa
3 – Topolino, il più grande attore di film sonoro…
5 – “Più stelle che in cielo…”
6 – Il “Codice della Moralità” di William Hays
Grazie a Plinio Perilli che nel suo libro “Costruire lo sguardo” ci regala passaggi fondamentali per la storia del cinema e in questo caso ci riporta alle cupe e magiche atmosfere hitchcockiane, nei suoi meandri psicologici, nel suo mondo avvincente di intrighi e possibilità con attori e attrici meravigliosi che ci hanno fatto, e continuano, a farci sognare ad occhi sgranati…
E grazie ad Abele che posta questi frammenti così preziosi.
Un caro saluto
Monica
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Plinio … penso che il tuo libro dovrebbe essere un testo obbligatorio per chi studia Arte, Storia dell’Arte oltre che naturalmente cinema ed altri media…
articolo bello ed esaustivo…
spero di averlo presto nella mia libreria 🙂
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leggerò anche gli altri della serie… naturalmente 🙂
un abbraccio …
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