“Porto in me, scolpita fin dall’ infanzia una specie di statua interiore, che conferisce una continuità alla mia vita, che rappresenta la parte più intima, il nocciolo più duro del mio carattere. Questa statua, l’ ho modellata nel corso di tutta la mia vita. Vi ho apportato continui ritocchi. L’ ho affinata. L’ ho levigata. E se scrivo questo libro non è per autocompiacermi o per regolare dei conti. Ma per assegnarmi un nuovo scopo, dunque una nuova esistenza. Per fabbricare dell’ avvenire col mio passato”. (François Jacob)Volevamo essere statue di Pasquale Vitagliano, pubblicato da Sottovoce nel 2010, è la storia di Angelo Centi, protagonista ed io narrante del romanzo, che, dopo la laurea in scienze politiche, parte da un paese del Nord Barese e approda a Milano, dove riesce ad entrare nel Politico del Corsera, per tornare al paesone cinque anni più tardi.
Questo percorso, segnato da incontri, storie d’amore e di eros accogliente e respingente, e destini che si intrecciano e si sfilano, si sviluppa dagli anni ’90 del Novecento al primo decennio del 2000, un periodo durante il quale una sorta di meglio gioventù europea si muove nel crepuscolo di un’epoca, perdendosi e ritrovandosi sulle macerie di ideali infranti.
La vita di Angelo, volta alla ricerca di un miraggio, di una realizzazione ideale, di un traguardo umano e professionale che lo appaghi, è in realtà un’antieroica odissea che ritorna al deserto, all’ordinario, alla grigia mediocrità da dirigente in un tribunale del Sud; sullo sfondo, non accessorio, è il miraggio della grande Storia, dalle attese di una Europa nuova nell’anno cruciale 1989, al naufragio delle bombe su Mostar, fino al ripiegamento su fatti italiani provinciali e cronachistici di una criminalità che, quotidianamente, concretamente, toglie il senso alla parola giustizia.
Tuttavia, questa regressione così definitiva è carica di un’umanità, di un valore civile, di un profondo senso di responsabilità personale che riportano Angelo ad una consapevolezza di sé, ad un suo equilibrio interiore, ad una pacificazione con se stesso e con il suo posto nella Storia, anche attraverso l’esercizio faticoso della discrezione, e sulla base di un dialogo continuo con i grandi autori (Stendhal, Proust, Ungaretti).
E alla fine la grande incompiuta, la sua vita, come la misteriosa cattedrale di Venosa, teatro nelle ultime pagine del libro di un incontro generazionale attraverso cui il protagonista ritrova la memoria del sangue, offre al lettore un’idea possibile: costruire, ciascuno, la propria statua interiore, la cui non-finitezza sarà completata da ciò che verrà.
Dal destino a noi sconosciuto di chi verrà.
leggendo il corsivo iniziale, mi sono chiesto se François Jacob abbia più o meno consciamente parafrasato quanto scritto da Diderot qualche secolo prima circa l’idea di “statua interiore”. sono andato a cercare le parole del grande filosofo/scrittore per riportarle qui: “ognuno, si costruisce una statua interiore, e lo fa nel momento peggiore della propria vita, l’adolescenza, quando non sa ancora nulla di sé né del mondo, e non ha la minima idea di come si costruisca una statua e poi passa il resto dei suoi giorni a cercare di somigliarle. se gli va bene arriva il momento in cui se ne rende conto e comincia a demolirla, ma è impossibile sbarazzarsene del tutto, ed è per questo che nessuno riesce mai a essere felice”. peraltro, a onor del vero, è probabile che Diderot si sia ispirato a Plotino, filosofo greco del terzo secolo dopo Cristo, il quale affermava “ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non smettere di scolpire la tua propria statua interiore, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro”.
anche se non ho letto l’opera cui fa riferimento questa recensione, mi arrischio a sviluppare ulteriormente la metafora scultorea: proprio nell’imperfezione e nell’incompletezza, nel dinamico e irrisolvibile accavallarsi di costruzione e distruzione, trova massima realizzazione il senso del nostro essere *umani*.
tutto questo, forse parzialmente fuori contesto, mi sentivo di condividere.
: )
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Perfettamente contestuale invece Malos. Come corretti sono i riferimenti, noti anche a Jacob, di Diderot e Plotino. L’incompiutezza credo che sia una modificazione di stato della “liquidità” post-moderna. Utile per toglierci dalle spalle il peso del Novecento, ma insufficiente, incompleta appunto, per costruire una nuova epoca. Questa, queste, hanno bisogno di solidità (nuove). Grazie.
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Un anno dopo, siamo ancora qua. Buon 2018 a tutti gli amici, ai lettori e al nostro Neobar! ❤
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