“Liberi ma non redenti”. La parola di Hurbinek e il valore della testimonianza di Roberta De Luca

Partiamo da una premessa. Il tema della testimonianza sulla Shoah non può prescindere da Primo Levi: il grande scrittore torinese, con Se questo è un uomo, non ha scritto un libro su Auschwitz; ha scritto il libro su Auschwitz. Levi rimase nel Lager dal febbraio 1944 al gennaio 1945, e giunse a casa sua, a Torino, solo nell’ottobre dello stesso anno, dopo una lunga odissea nel cuore dell’Europa devastata dalla guerra. Come afferma nella Prefazione di Se questo è un uomo, la necessità di raccontare la sua esperienza fu in lui impellente, urgente, improrogabile, a tal punto da competere con i bisogni materiali primari, come mangiare e bere. Dichiara inoltre che il libro era nato già nei giorni del Lager, anche se soltanto al suo ritorno aveva assunto forma compiuta su piano, e conclude con una frase icastica: “Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato”.

Questa affermazione pone una questione molto seria sul rapporto tra racconto e verità, cioè sulla ragione stessa della testimonianza, che dipende prima di tutto dal ruolo della memoria. Alla memoria Levi dedica tutto il primo capitolo (La memoria dell’offesa) de I sommersi e i salvati, il saggio capolavoro pubblicato nel 1986. L’autore mette subito in evidenza come la memoria sia uno strumento meraviglioso ma fallace, e come questo limite la renda inevitabilmente “fonte sospetta”. In condizioni normali, la memoria è influenzata da diversi fattori e in ogni caso essa è soggetta alla stessa forza naturale che determina la degradazione dell’ordine in disordine, alla quale è piuttosto difficile opporsi. Lo sanno bene i magistrati che, di fronte al racconto di due testimoni oculari disinteressati, ascoltano due versioni molto diverse di uno stesso fatto. Possiamo allora immaginare cosa accada in relazione ad un evento sconvolgente e traumatico come quello dello sterminio. Levi analizza la memoria degli oppressori e quella degli oppressi (non è mai in discussione la separazione netta tra vittime e carnefici, e non ci sono mai giustificazioni per questi ultimi), sottolineando come in entrambi i casi, per motivi diversi, ci sia la costruzione del ricordo, ovvero la manomissione dell’oggetto della testimonianza, e in definitiva la sua contraffazione. Se si prendono le testimonianze di personaggi come Darquier, il commissario addetto alle questioni ebraiche  presso il governo di Vichy e responsabile della deportazione di 70.000 ebrei, o Eichmann, l’artefice del piano organizzativo dello sterminio, o ancora Hoss, il penultimo comandante di Auschwitz inventore delle camere ad acido cianidrico, si potrebbe legittimamente pensare che le loro dichiarazioni siano in mala fede, cioè mentano, sapendo di mentire. Non è così scontato. Il percorso di costruzione del ricordo nel tempo, attraverso l’autoinganno, trasforma la mala fede in buona fede, vale a dire, essi credono veramente alle loro menzogne. Questo avviene perché è più facile vivere in buona fede, e perché tenere distinte mala fede e buona fede esige uno sforzo intellettuale e morale che queste persone non erano in grado di compiere. Anche gli oppressi, costruendosi una realtà fittizia, erigono mentalmente una difesa, che diventa speranza, poi illusione, e permette di sopravvivere psicologicamente alla tragedia. Levi racconta che al ritorno da Auschwitz andò a salutare i familiari del suo amico fraterno Alberto, morto durante la marcia di evacuazione dal Lager, che i nazisti avevano pianificato alla notizia dell’arrivo imminente dei russi. Non appena Levi cominciò a riferire cosa fosse successo ad Alberto, la madre lo interruppe dicendo che lei sapeva già tutto: suo figlio era riuscito a fuggire, si era nascosto nei boschi e ora si trovava in mano russa. L’anno successivo Levi tornò a trovarli e, questa volta, la verità era leggermente cambiata: Alberto era in una clinica sovietica, aveva perso la memoria, non ricordava il suo nome, ma prima o poi avrebbe dato notizie di sé. Alberto non ha mai fatto ritorno.

Sebbene la memoria sia inattendibile d’impianto,  Levi dimostra in ogni suo discorso, in ogni sua pagina, di ricordare perfettamente quell’esperienza, di conservare una memoria prodigiosa di fatti, volti, nomi; pertanto con tono apologetico si attribuisce una capacità testimoniale oggettiva e veritiera. Tra le persone di cui Levi ha raccontato la storia, un posto di riguardo spetta a Hurbinek. A questo bambino di tre anni, un nulla, un figlio di Auschwitz vissuto sempre in stato di prigionia, il grande scrittore dedica poche, indimenticabili pagine all’inizio de La tregua, il romanzo del nostos. Hurbinek è l’emblema della fatica del testimone a raccontare l’inenarrabile e ad esprimere l’inesprimibile, della paura di non essere creduti, dell’angosciante certezza secondo la quale se non c’è testimonianza, il fatto non sussiste. Hurbinek non cammina e non parla – nessuno glielo ha insegnato – pronuncia solo un suono disarticolato e incomprensibile, ma non rinuncia ai suoi tentativi di comunicazione: “continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati” E nelle righe finali, struggenti, cariche di immensa umana pietà, si legge:

                 Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto
                 un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro,
                 per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo
                 aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure
                 stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni
                 del marzo 1945, libero ma non redento.
                 Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.


5 risposte a "“Liberi ma non redenti”. La parola di Hurbinek e il valore della testimonianza di Roberta De Luca"

  1. Urbinek era senza l’acca nel mio ricordo (chissà se per una diversa edizione o per un autoinganno della mia memoria). non mi piace quell’acca all’inizio del nome, è molto più voragine la “U”.
    “se questo è un uomo” ce lo fece leggere in classe una suora pazza (che amo) in prima media (!!). oggi non viene più letto neanche alle scuole superiori (i miei due figli più grandi l’hanno letto su mia raccomandazione).
    che aggiungere? Urbinek è un essere umano senza nome ma fatto di parole (esiste nel racconto di Levi), quindi al mio cervello piace pensare che Urbinek rappresenti la scrittura, che non a caso “pronuncia solo un suono disarticolato e incomprensibile, ma non rinuncia ai suoi tentativi di comunicazione”.
    in tal senso, anche la scrittura forse finisce per essere un “autoinganno” molto simile alla ricostruzione del ricordo operata dalla memoria, visto che l’illusione di comunicare viene ovviamente vanificata dal numero sempre più limitato di lettori (curioso come gli scrittori invece siano un numero sempre maggiore: in epoca di social networks siamo sommersi da pagine piene di scritti che restano lettera morta essendosi estinti i lettori), ma anche dal fatto che il vero messaggio non è quello emesso dalla fonte ma quello reinventato dal ricevente al momento della sua soggettivissima decodifica.
    non a caso il mio nanoforisma preferito è da sempre “l’incomunicabilità muove il mondo”.

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  2. Grazie per le sue riflessioni Malos Mannaja.La scrittura sicuramente costituisce una ricostruzione dei fatti, quindi può non essere attendibile, perciò Primo Levi affrontò il tema della fallacia della memoria. La sua credibilità però è indubbia (le segnalo a proposito un testo dell’Einaudi “Prchè crediamo a Primo Levi?” di Mario Barenghi)e questo dà un valore oggettivo alla sua testimonianza. Hurbinek è scritto così, ma come vede la memoria ha un suo personale percorso.

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