Giancarlo Locarno: Tahar Ben Jelloun – La via di uno soltanto

‘Giacometti una volta disse a Genet : “ Un giorno mi sono visto per la strada così, ero un cane”. Un cane, che poi è stato scolpito, anche lui è in cammino e partecipa della stessa umanità delle altre statue.’

Un altro viaggio-omaggio di Giancarlo. Questa volta parte dalla scultura di Alberto Giacometti, raccontata da Tahar Ben Jelloun, per addentrarsi in una via grande appena per accedere al labirinto e, dopo aver incrociato Beckett e Genet, arriva all’ultima periferia di Milano per fermare il viaggio in una poesia.

Giancarlo Locarno_Tahar Ben Jelloun – La via di uno soltanto


Una risposta a "Giancarlo Locarno: Tahar Ben Jelloun – La via di uno soltanto"

  1. anche qui un accenno al labirinto – ho letto poco fa, casualmente, il post di Roberta De Luca – nella suggestiva intuizione iniziale di Tahar Ben Jelloun, che mette in relazione la forma allampanata delle sculture di Giacometti col bisogno di accedere al labirinto di Fez per smarrirsi in una solitudine silenziosa e ineludibile. non forme slanciate, dunque, per esprimere un tentativo di elevarsi nell’etere o per sfuggire al contatto con la terra, bensì per dare corpo alla necessità di sgusciare, di incunearsi negli anfratti della realtà, nelle fessure tra il qualcosa e il nulla che ci attende. le opere filiformi di Giacometti traducono un particolare effetto lente cinematografica che ci spinge oltre la cosmesi della carne, oltre la presenza fisica dell’essere per anticiparne la trama, per “spoilerarne” il finale, ovvero la rarefazione e la scomparsa del corpo in un oblio di nulla intangibile e immateriale.
    nella bella poesia di Giancarlo, che chiude il post, mi ha colpito il troneggiare del centro commerciale, un santuario colorato incapace di scambiare calore umano con l’esterno (ma perfettamente in grado di scambiare lavoro). e allora attorno a questo pseudo-monolite kubrickiano arlecchinato (ricordate le scene inziali di 2001 odissea nello spazio?) vedo affannarsi esistenze smunte, una subumanità grigia per la quale il sistema mercato liberista ha specificamente realizzato un progetto di precarietà diffusa (la precarietà e la disoccupazione non sono eventi casuali o sfortunati, ma elementi strutturali e funzionali alla compiuta realizzazione hayekiana del lavoratore-merce). gli individui spogliati della loro individualità/identità (vedasi il commento al post labirintico di Roberta De Luca) sono derubricati a grovigli di linee, bozzetti (di Calabria resta solo l nome) e vengono globalmente de-umanizzati, scarnificati in ingranaggi. passaggi. paesaggi. un’essenza/assenza tutt’altro che rassicurante, nonché potente nelle implicazioni.

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