per il mese di maggio, le prosenze inquietanti vi invitano a cena con Domenico Aliperto di Librimprobabili e col suo racconto “Calamari”.
CALAMARI
È un miracolo che l’uomo abbia scoperto che il calamaro si può cucinare e mangiare. Sono due specie completamente diverse, l’uomo e il calamaro, abitano in contesti naturali del tutto differenti, non si conoscono, non si capiscono. Il calamaro è un essere insignificante, tedioso, sgusciante, insopportabile al tatto e tutt’al più penoso alla vista. Può raggiungere dimensioni considerevoli, come nel caso dell’Architeutis Dux, meglio conosciuto col nome di suddetto gigante, che arriva fino a svariati metri di lunghezza, ma per lo più l’animale non supera i venti centimetri. Esso vive in tutti i mari e gli oceani della terra, in genere a parecchie centinaia di metri di profondità, dove la luce filtra appena ed è per lui possibile imbattersi in quei due o tre miliardi di infinitesime forme di vita conosciute come plancton, suo preziosissimo alimento. Un ambiente che proprio non si confà alle abitudini di un animale bipede e inesorabilmente terrestre, dotato di straordinaria intelligenza, creato a immagine e somiglianza di un dio. Eppure l’uomo se ne ciba, li caccia con avidità per gustarne le carni misteriose e traboccanti di sapori millenari. Carni. Una parola che ha del paradossale quando si parla di architeutis (diciamocelo, mai nome più imponente fu scelto per chiamare un essere tanto ridicolo): due occhi spenti di cetaceo, incastonati in una specie di corpo affusolato e alieno, fissano allibiti tra l’esserci non esserci di minuscoli tentacoli vispi come bambini furibondi un vuoto denso di significato e un istinto di sopravvivenza che ha del sublime. Ecco, le cosiddette carni si trovano tra questi enormi bulbi, avvolte in una specie di cappello da gnomo che lo tiene tutto intero e in equilibrio, e consistono in una sacca sottile piena di schifezze, poltiglie bianchicce e liquidi nerastri. Sì, insomma, avete capito: gli organi.
Qui comincia la magia. Perché quest’essere ripugnante da schiacciare, da trucidare per la sua insignificanza, da odiare in quanto microscopica incarnazione di paure inconfessabili di profondo e sindromi da capitano Achab, diventa nelle mani sapienti dell’uomo un’inaspettata prelibatezza, lo scaturire di un odorino che spalanca lo stomaco, uno stuzzichino che fa vibrare di piacere e sorpresa le papille gustative. E via, fiumi di inchiostro sprecati per descrivere in minuziosi dettagli gli svariati riti di conservazione e preparazione della ridicola bestia.
Che siano tramandati di generazione in generazione come mistiche funzioni religiose, o pubblicati come inserti della settimana enigmistica in angusti trafiletti dedicati alla cucina sfiziosa, o ancora celebrati con parole colme di retorica nei ricettari dei più sontuosi ristoranti, non fa alcuna differenza: il calamaro piace. E piace così tanto che per questo semplice e ottuso motivo viene pescato, stordito, ucciso, imballato, trasportato su grossi camion nelle pescherie o negli impianti di congelamento e poi venduto senza batter ciglio. È un business, è sterminio di massa, ha del mafioso. All’animale tutto ciò non fa piacere. Il pescatore, che non ha il coraggio di guardarlo negli occhi quando è ancora vivo, in qualche modo riesce a farla franca, sente più o meno di avere la coscienza pulita, osserva mestamente le casse gonfie della sua fatica e si augura, segnandosi, di non dover mai avere a che fare con una preparazione gastronomica a base di calamaro. Il peggio lo affrontano gli chef e i golosi avventori di surgelati. Stavolta tocca a Tania.
Il calamaro, infatti, che non ha avuto la sua vendetta, anche da morto non smette mai di osservare la sopraffina carnefice del suo corpo straziato, e fa di tutto perché si senta a disagio. La turba, le scarica addosso ogni responsabilità. Per postumo gusto sadico la punisce affliggendola con mille sensi di colpa, trasforma la cuoca in un inconsapevole chirurgo pervaso da insicura mania omicida. Pensa il calamaro: “Si, è vero, tra un po’ mi mangerai, godrai del sapore del mio organismo, magari abbrustolito in un dito d’olio, o pieno di uova con tonno, prezzemolo e peperoncino. Ma prima Tania, oh sì, prima dovrai pentirti d’aver fatto di me il vanto del tuo ventre.”
E l’ingenua sfrega sotto un’acqua gelida l’altrettanto gelido corpicino dell’animale stecchito, stringendolo tiepidamente tra le dita come a ridargli forma e vitalità, per poi adagiarlo con infinita delicatezza sull’orlo di un lavello, i tentacoli esausti stesi come a prendere il sole. Tania ripete l’operazione una due tre quattro volte, tante quanti sono gli ospiti a cena moltiplicati per due (e a dire il vero è un po’ sconcertata all’idea di dover poi presentare a tavola quelle misere povere flaccidità) e lancia un’occhiata ansiosa al libro delle ricette, che in quel momento, con le sue belle, invitanti foto, è l’unica cosa che le dia un po’ di fiducia.
Terminata l’operazione più semplice, Tania deve dunque fare i conti con la parte sporca del lavoro. Il calamaro infligge il proprio corpo a chi vuole profanarlo. Bisogna tagliare e gettare via la parte inferiore del cappello da cui sporgono appiccicosi filari di tentacoli e misteriose protuberanze dall’aspetto poco rassicurante. Un materiale plastico. Indeformabile, infrangibile, impossibile da incidere, figurarsi a tagliarlo. La donna non si dà per vinta. Sebbene quella creaturina priva di vita sembri dibattersi, scivolare via, guizzare dalle mani come impazzita, alla fine Tania ha ragione del suo capriccio e strappa via i tentacoli dal resto del corpo con un impeto d’ira. Le mani sotto uno sguardo stupefatto si tingono di un liquido denso, nero, maleodorante, che sgorga a fiotti dalla testa. Solo allora, finalmente, Tania se ne rende conto: “Certo, anche lui è un animale, deve pur avere il suo sangue! Anche lui viveva, anche lui possedeva una qualche esistenza prima che lo pescassero, lo colpissero in testa e lo gettassero nel ghiaccio della pescheria.”
Filosofeggia, teorizza a ritroso la cuoca rammaricata, si giustifica, ma non comprende in realtà l’intimo dramma del calamaro. Spera a vuoto che quello sia l’ultimo afflato della bestia trucidata, l’ultima denuncia del suo essere stato macchia grigiastra e senziente spersa tra i flutti del mare.
Il peggio sembra passato, quegli occhi inespressivi giacciono non casualmente seppelliti sotto mucchietti di tentacoli viscidi e senza ormai alcun senso.
Forse il calamaro è morto davvero, forse il calamaro non fa più paura.
E invece non è finita. Per impossessarsi delle carni del grande sopravvissuto bisogna ancora penetrarne il sacrario, profanare l’involucro che ha protetto questa piccola divinità da millenni di spietata evoluzione, spolpandolo, affondandovi con decisione indice e medio che, soli, intuiscono una complessa religione d’alveoli e ventricoli, palline mollicce, sfilano con disgusto stringhe di cartilagine e materiali bituminosi custoditi gelosamente a dargli e preservargli vita. Le dita di Tania intuiscono un silenzio; e trasmettono con scariche nervose precise come segnali morse ogni loro minima impressione al cervello, sempre più emotivamente coinvolto. Si impietosiscono le braccia, fremono le spalle, si stringe il torace, il collo si accascia da una parte. È un grottesco susseguirsi di sorprese sgradevoli, la sensazione di iniziale eccitata curiosità si piega suo malgrado all’idea di accettare sequenze infinite di organi sconosciuti, alieni, uncinati come proprie inconfessabili estraneità.
È questo il breve punto di contatto tra la donna e la bestia, quando la prima, acquisita una sofferta maturità, arriva infine a provare qualcosa che, tradotto nel linguaggio di tutti i giorni, si può definire, a seconda delle gradazioni che il fenomeno assume e della sensibilità dell’interessato, compassione, pietà, pulsione affettiva o senso di riconoscimento. Le mani tremano, e per poco l’operazione si interrompe. Le mani tremano. Lasciano per un attimo da parte l’oggetto della carneficina e tornano colpevoli a rimestare coscienza tra quei tentacoli esiliati come un branco di paria iscritti al sindacato, si tuffano a cercare risposte tra quei resti scartati come escrementi di mosca. Le mani tremano. Afferrano con titubanza e rispetto quel che rimane del calamaro e vi scrutano negli occhi una pacifica, imperturbabile superiorità. Le mani tremano. Senza colpo ferire l’animale ha vinto. Concede alla donna un serafico perdono, ora ha un’espressione rassegnata e innocua e non sembra più un alieno indifferente, fa quasi simpatia il calamaro. Ne nasce una profonda reciprocità.
Ma è solo un idillio istantaneo. Come riscossa da un lungo sonno pieno zeppo di incubi Tania si accorge di tenere fra le mani una disgustosa mucillagine grigia, la ributta nel mucchio, afferra con lo sguardo spazientito la più corta delle lancette dell’orologio e si accorge che tra un po’ arrivano gli ospiti. L’olio, il sale, il pepe assistono inorridendo. Brandisce con nuova sapienza il coltello e incide regolari aberrazioni a quanto appreso.
*
(pausa di riflessione a margine del testo)
nel secolo scorso i premi Nobel per la medicina Hodgkin e Huxley coi loro esperimenti sull’assone gigante di calamaro (il più grande del regno animale) hanno gettato le basi della neurofisiologia moderna. i calamari, infatti, sono da sempre grandi alleati del cervello umano e del suo bisogno di sapere, oltre che di sapore. chi potrebbe mai supporre, vedendo giacere il mollusco inerte “sull’orlo di un lavello, i tentacoli esausti stesi come a prendere il sole” che l’assone gigante controlli un sistema di propulsione capace di spingerlo alla ragguardevole velocità di 10 metri al secondo? incredibile eh? e, parimenti, chi potrebbe mai immaginare che gli “occhi spenti” del calamaro che ci “ fissano allibiti tra l’esserci non esserci” abbiano una struttura complessa (pupilla, iride, lente, fotorecettori con rodopsina) analoga a quella dell’uomo e di altri mammiferi? non bastasse, qualche anno fa, la neuroscienziata Maryanne Wolf ha dato alle stampe il suo splendido saggio divulgativo “Proust e il calamaro”, dove ci spiega che lettura e scrittura non sono attitudini innate, ma invenzioni geniali che richiedono una riprogrammazione del cervello fin dalla prima infanzia: studiare la dislessia, afferma la scienziata, è un po’ come studiare un giovane calamaro che non riesce a nuotare in fretta.
tutto ciò mi fa chiosare – perdonate la blasfemia – che il calamaro, animato da sovrumana generosità (testimoniata peraltro dal fatto che possiede tre cuori), incarni un novello Gesù Cristo venuto a sacrificarsi per il bene dell’umanità. ed ecco allora le dita di Tania, chiamate a trasmettere “con scariche nervose precise come segnali morse ogni loro minima impressione al cervello, sempre più emotivamente coinvolto” e a stabilire una sorta di *comunione sinaptica* con l’assone del calamaro. ecco che “l’animale bipede (…) dotato di straordinaria intelligenza, creato a immagine e somiglianza di un dio” si ricongiunge all’unica natura che davvero lo abita, quella animale. le mani della protagonista scavano nelle ferite del dio trovando “sequenze infinite di organi sconosciuti, alieni, uncinati” col medesimo gesto di Tommaso quando viene esortato dal Cristo risorto a “tendere la mano e infilarla nel suo costato”. un nuovo Vangelo Tattile, dunque, prende corpo tra le righe del racconto, una consapevolezza tanto illuminante quanto scomoda, un sapere che coincide in parte con “quanto appreso”, ma in parte scivola obliquo tra i pensieri “e incide regolari aberrazioni” nella nostra falsata visione del mondo. impossibile dunque non restare cognitivamente sconvolti quando, al risveglio dal “sonno pieno zeppo di incubi” della ragione, ci ritroviamo faccia a faccia con noi stessi. E nel momento esatto in cui crediamo si toccare con mano la nostra immagine riflessa nello specchio finiamo per affondare “le mani una disgustosa materia grigia”…
non resta, dunque, che ascoltare la narrazione dall’assone gigante di calamaro e continuare a riprogrammarci e riprogrammarci, perché le storie sono le arterie nelle quali scorre la coscienza dell’umanità. non resta che tornare a rileggere dall’inizio “Calamari”, ottimo esempio di architettura narrativa aperta, capace davvero di insegnarci a leggere, ovvero a formulare inferenze e ipotesi nonché a raffigurarci immaginativamente situazioni e scene, così da integrare le conoscenze acquisite con quelle che già crediamo di possedere.
fantastico! grazie Malos per la condivisione e per la pausa di riflessione. spero di non essere blasfemo se dico che avevo appreso dell’ “intelligenza” del calamaro grazie a un albo di Dylan Dog…
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prego! e sei il primo dei “prosenzi” che ringrazia, quindi onore a te a alla tua umana socialità
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circa Dylan Dog tranquillo, non sei assolutamente blasfemo. per parte mia, con il soggetto scritto da Tiziano Sclavi ho ri-appreso ad amare il fumetto (ero rimasto a Nonna Abelarda e al Signor Bonaventura)…
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el racconto, di un iper-realismo ben strutturato; più che considerazioni scientifiche di neurologia, a me ha ispirato qualche considerazione etica, forse elementare, nel figurarmi una volta successiva in cui la sciùra Tina sarà alle prese con la genesi della bistecca a partire dal manzo che rumina nel prato.
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è che al calamaro non attribuiresti mai un’intelligenza, una consapevolezza, un’anima. è più alieno dell’alieno, è quasi un nemico dell’umanità nella sua insignificanza. per questo lo divoriamo senza il minimo senso di colpa. eppure…
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@Domenico: esattamente. come scrivevo nella risposta a Giancarlo, la forza del racconto sta proprio nel sorprendere il lettore spingendolo a “toccare con mano” la *scomoda* fratellanza di fondo che condividiamo con le altre specie (anche non antropomorfe) facendo tutti parte del mondo animale. non è pensiero che riusciamo ad accettare facilmente, visto il nostro congenito complesso di superiorità, certificato dal fatto che: (a) ci siamo addirittura affibbiati un “sapiens” al quadrato, (b) ci siamo riconosciuti una genesi in linea diretta ad immagine e somiglianza di Dio e un’anima immortale, (c) ci riteniamo padroni nel mondo nonché del nostro conto in banca.
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@Giancarlo Locarno: beh, però devi ammettere che difficilmente Tina potrà appoggiare l’intero manzo sul bordo del lavello ed entrarci *dentro* con le mani. personalmente non vedo nessuno scarto tra la neurologia e l’etica, anche perché senza neuroni non staremmo qui formulare considerazioni (né elementari né complesse).
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e comunque la cosa più intrigante – a nanomododisentire, ofcòrse – era il punto di flesso creato da Domenico Aliperto nel racconto, nel senso che anche dove esiste un’apparente lontananza filogenetica, animali che ad un primo impatto possono “apparirci” lontanissimi da homo sapiens sapien, in fondo non lo sono affatto…
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ragazzi, si chiama TANIA, non TINA! non dimenticatevi che ha un coltello in mano e che è un’assassina, potrebbe farvela pagare.
però quasi quasi seguo la vostra svista e le cambio il nome. dopotutto potrebbe essere un omaggio a Tina Pizzardo, che fece a pezzi un altro calamaro
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Molto interessante e intrigante sia il racconto di Domenico Aliperto che la riflessione di malos. Da un punto di vista prettamente personale, il racconto mi ha portato a riconsiderare i calamari (fritti, li ho sempre adorati). Già non mangio più carne da un paio di anni. Al pesce, tuttavia, ho sempre chiuso un occhio, giustificandomi vigliaccamente che tanto soffrono di meno… Bisognerebbe che Domenico scrivesse un racconto per ogni pesce prelibato, l’umanità gliene sarà grata. Penso ad esempio alle aragoste che si comprono vive e soggette alle pene dell’Inferno, o a un pesce come lo scorfano che ce la mette tutta con la sua testa sgraziata e spinosa a non farsi mangiare, ma tant’è che finisce in ogni zuppa.
Grazie davvero, lettura illuminante.
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ciao Abele, se vuoi avere sani rimorsi di coscienza pure per il pesce, ti consiglio quest’altra lettura: https://librimprobabili.com/2017/03/01/recensione-se-niente-importa-jonathan-safran-foer/
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Grazie, Domenico! E complimenti anche per il tuo blog.Certo di interpretare anche il volere di malos e degli altri redattori, sarebbe bello pubblicare altri tuoi scritti su neobar. Restiamo in contatto!
Abele
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grazie a te Abele!
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Siamo all’inizio della stagione della pesca dei calamari e questo racconto mi ha riportato a procedure di pulizia degli stessi che sicuramente farò nei mesi invernali. Il Calamaro pescato dalla barche o dal pontile con la canna munita di totanaia, è uno strazio quando catturato viene adagiato al suolo o dentro un contenitore di plastica, lo vedi starnazzare, sputare il nero, pompare l’aria invece dell’acqua di mare che usa per muoversi, lo vedi impallidire sempre più da quel rosso paonazzo che possiede appena catturato. E la pulitura in effetti è un’altro momento delicato. Devi togliergli il dente fra i tentacoli che sono sempre un minimo urticanti,svisceralo facendo attenzione a non rompere la sacca dell’inchiostro, e gli occhi? Vanno tolti e per quanto tu sia delicato ed esperto esploderanno il loro liquido come una fontana. Ecco ora è pronto, ma ti ricorderà la sua presenza anche durante la cottura. Arrosto scoppietterà come fosse una scatola di petardi, alla cacciatora galleggerà come pezzi di plastica in un mare rosso lasciando passare da sotto di sé con esplosività le bolle d’aria del sugo in temperatura, fritto, meglio stare lontani dalla padella, ripieno non ve lo auguro, meglio cucirsi un maglione…insomma vero, il legame o tegame che sia, fra noi e il calamaro è evidente, è quello fra il carnefice e la vittima, fra il predatore e il predato, fra l’animale e l’animale. Tania facilmente riuscirà a scrollarsi di dosso i sensi di colpa, attribuendoli per la maggior parte al mondo che è fatto così, o cosà, a chi ha inventato le cene o le cucine…di certo non dimenticherà il contatto con quegli occhi languidi pieni di fratellanza. Racconto efficace che incalza con un crescendo di emozione sul piatto e cruda realtà al palato, il tutto condito con un pizzico di disincanto o distacco scientifico.
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Il tuo commento sta al mio racconto come la Colonna infame sta ai Promessi sposi! Grazie per aver letto e scritto
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