Augusto Benemeglio: Il matrimonio di Cechov

“Amore mio, caro, tenero, da quanto tempo non parlo più con te!…. Vorrei stare in ginocchio adesso, davanti a te, …. e posare la testa sul tuo petto e ascoltare il tuo cuore, e tu mi accarezzeresti teneramente: ricordi? Antončik mio, dove sei?  Davvero non ci rivedremo mai più?! … Era appena cominciata la nostra vita, e improvvisamente si è interrotto tutto, è finito tutto. Com’ era bello, come stavamo bene insieme! Dicevi sempre che non avresti mai creduto che si potesse vivere così bene “da sposato”. Ed io credevo così ciecamente che saremmo stati insieme ancora tanto tempo, tanto…. Ancora pochi giorni prima della tua morte parlavamo e fantasticavamo di una figlioletta che avrebbe dovuto nascerci. E’ un dolore così grande, per me, che non ci sia rimasto un figlio. Parlavamo tanto di questo tu ed io….Un figlio mi avrebbe fatto decidere, lo sento. e tu, come lo avresti amato!…. Il teatro, il teatro … Non so più se devo amarlo o non piuttosto maledirlo…. Tutto è così deliziosamente confuso in questa nostra vita! All’ infuori del teatro adesso non mi rimane altro. Questi tre anni sono stati per me una battaglia ininterrotta. Vivevo in un continuo rimprovero a me stessa. Per questo ero così inquieta, instabile….. Come se agissi sempre contro la mia coscienza. Ma poi, chi lo sa: se avessi abbandonato la scena…”

Olga Knipper, la moglie di Cechov, scrisse questa lettera l’11 settembre 1904 , quando Cechov era morto da più di due mesi, il 2 luglio 1904, a  Badenweiler, in Germania. E continuò a scrivergli moltissime altre lettere, convinta che lui in qualche modo, dall’altrove,  le potesse comunque ricevere.

Il gabbiano
Si erano conosciuti a Mosca pochi anni prima, in occasione delle prove de “Il Gabbiano” in cui lei faceva la parte di Arkadina   «Olga ? , secondo me, è meravigliosa: quella voce, quella nobiltà, quella schiettezza . Tutto era così bello da sentirsi la gola stretta. Se fossi rimasto a Mosca, mi sarei innamorato di lei».

Dopo un po’ la rivide, «Se me lo permette, prendo la sua mano nella mia, e le auguro tutto il meglio»: in realtà , come la maggioranza degli uomini, Anton Cechov non aveva capito che  era già in trappola , era stato lui a essere già catturato dalla mano morbida e lieve di quella attrice russa di origine tedesca , che a vederla in fotografia non appare né bella, né morbida, né tantomeno meravigliosa, affascinante, come la vide lui.  Anzi, Olga ha trent’anni , è una dei  39 membri della prima compagnia del Teatro d’Arte di Mosca, fondata e diretta nel 1897 da Konstantin Stanislavskij, -il nuovo genio delle scene, – e dà l’idea di essere la classica attrice “operaia”, quella che mette le mani e l’anima nel fango, tutto  ciò che voleva il regista russo dai suoi attori, insomma era tutto meno che una diva. Il regista non piacerà mai a Cechov , perché trasformerà tutte le sue “commedie” (come le chiamava  lui), in drammi , lo vede troppo ossessivo, maniacale, serioso, mentre i suoi personaggi sono volubili, leggeri , quasi impalpabili, pur con tutta la pesantezza dell’essere . Però deve riconoscere che è stato lui a portare al successo “Il Gabbiano”, dopo un primo fiasco memorabile.

Il matrimonio
Siamo alla vigilia del 1900, Cechov ha quasi quarant’anni e non ha mai pensato al matrimonio:  «Ho una paura terribile degli sposalizi”  , dirà a Olga, quando la loro relazione si spingerà verso quella direzione . “Ho paura delle congratulazioni, dello champagne, della gente”.

Volle evitare tutto ciò e il 25 maggio 1901 si sposarono di nascosto, senza parenti e amici: alla cerimonia c’erano soltanto quattro persone; Cechov aveva invitato come testimoni due studenti sconosciuti. Olga accettò lo strano matrimonio, perché, sebbene fosse una signora , con qualche talora ostentata discendenza aristocratica , e ci tenesse molto alla forma , scoprì ( disse lei) che amava il marito più di quanto immaginasse. In realtà, Olga voleva a tutti i costi essere la moglie del più grande drammaturgo di quel tempo, e quindi la prima attrice di tutte le sue opere future.  Dopo trenta giorni di vita in comune,   Cechov stette male e tornò a Jalta, mentre la moglie andò a Mosca per le prove teatrali ( si davano le sue opere, “Il Gabbiano”, “Zio Vania”, “Il Giardino dei ciliegi” , e naturalmente Olga ne era la protagonista).

Il dio teatro
Olga era sempre via: a Mosca, a Pietroburgo, a fare le prove, a recitare, alle feste: era ormai la protagonista per antonomasia e – a dire il vero- lo faceva  con un’intensità estrema, conquistando tutti, critica e pubblico. Cechov avrebbe voluto che lei implorasse un po’ di libertà ai suoi tiranni del Teatro, e scendesse ogni tanto a Jalta, sia pure per pochi giorni. Ma in realtà era lei che non poteva fare a meno del suo ruolo, il suo vero unico grande amore non era Cechov, ma il Dio Teatro.  Questa condizione diventò tragica nei mesi dell’inverno quando lei promise di venire per le feste di Natale, poi di venire a gennaio, infine a febbraio, e non venne mai, come la «principessa lontana» della leggenda. Questa volta lui si arrabbiò profondamente. «Sei una tedesca positiva, di carattere, – le scrisse il 25 gennaio 1902- arrivi il lunedì della prima settimana di quaresima e te ne vai il mercoledì o addirittura il martedì della medesima settimana… Sei la mia croce!… Bisogna minacciarti, altrimenti non verrai affatto, o verrai solo per mezz’ora»… Mi sono abituato a te come se fossi un bambino , e senza di te sto male e ho freddo».

Lei rispondeva: «Come ti abbraccerò, con quali occhi ti guarderò ed esaminerò in ogni particolare il mio meraviglioso marito» . Ma in realtà, dopo tre anni di matrimonio erano stati insieme complessivamente non più di quaranta giorni.

Non baciava nessuno
Ma com’era Cechov?, si chiederà qualcuno.  Gli amici dicevano che parlare con lui era una cosa piacevolissima: non avevano mai incontrato un essere umano così amabile, gentile e affettuoso. Quando parlava, si nascondeva dietro l’ironia e la discrezione, come se lui non esistesse, e esistesse soltanto il piacere, a tutti comune, della parola. Gli amici aggiungevano che Cechov era generosissimo: aiutava di continuo gli altri, anche quando non aveva denaro. Ma, a un certo punto, gli stessi amici,   cominciarono ad avere dubbi , a  fare una terribile riserva su di lui, sui suoi modi , i suoi approcci.  In realtà, ci avete fatto caso?, – disse qualcuno –Cechov è cordiale, ma sembra che non voglia bene a nessuno, sembra completamente privo di amore e di passione per la vita e gli esseri umani. E fu proprio un amicissimo come Gorkij a confermare queste impressioni, Disse esplicitamente, che sì, era vero che Anton aveva sempre trattato gli uomini con freddezza diabolica, indifferente come la neve e la tormenta.  E anche lo stesso Cechov pensava di se stesso che era un uomo disabitato, vuoto, privo di quel misterioso qualcosa che è necessario alla letteratura. E spesso ripeteva , “ Io non sono un letterato, non amo i simposi , detesto i circoli letterari e le riunioni fra intellettuali, mi piace stare da solo, o con amici, per fare quattro chiacchiere sul più e il meno, tutto qui”.  Quando andava a trovare Tolstoj era come se andasse presso un santuario , lo venerava come una reliquia vivente, anche se Tolstoj gli diceva che i suoi drammi erano spaventosamente brutti, più brutti delle tragedie e delle commedie di Shakespeare. E lui ci sorrideva  benevolmente e annuiva. “Avete ragione, io sono un pessimo commediografo”.    Ma per quanto amasse e venerasse il padre di tutti gli scrittori russi, quell’icona vivente che era Tolstoj, egli non lo abbracciò mai. Non abbracciava e baciava nessuno, al contrario degli affettuosissimi intellettuali, scrittori e poeti russi che quando si incontravano non facevano altro che stringersi al petto e baciarsi. Ma nella profondità di quel meraviglioso diamante che era la sua anima, sentiva un immateriale amore per la vita, anche se a una domanda precisa della moglie Olga rispose: «La vita è esattamente come una carota. Una carota è una carota, e non si sa altro». In realtà, la donna amata, per lui, era la luna, che non appare ogni giorno all’orizzonte, e ingrandisce e rimpiccolisce: questa luna era un amatissimo specchio, che concentrava in sé tutti i raggi del sole sconosciuto, o forse assente.

Il giardiniere al tramonto
Tutto precipitò. In pochi mesi, i lineamenti del meraviglioso Cechov dalla «barba bionda» s’incupirono. La tubercolosi s’impadronì del suo organismo, senza lasciare nulla d’intatto o d’incolume. Tossiva, sputava sangue, stava male di stomaco, soffriva di diarrea, non aveva fiato. Vestirsi lo faceva ansimare. Il peso di un cappotto sulle spalle gli pareva insopportabile. Scriveva sei righe al giorno con immensa fatica: gli sembrava sommamente inutile farlo, e non riusciva a esprimere i suoi sentimenti. Avrebbe voluto smettere per sempre di essere uno scrittore: la mia vera vocazione era quella di fare il giardiniere.  Amava il suo giardino, aveva piantato con le sue mani , settanta piante di rose,  cinquanta acacie piramidali, molte camelie, gigli, tuberose, ma ormai – disse fra se – sto tramontando, tutto mi si cancella davanti agli occhi..

In questa vita cancellata, gli restavano due desideri: avere un figlio, e comporre qualcosa di lieto, di molto allegro. Scrisse gioiosamente alla moglie: «Adesso ho una voglia terribile che tu metta al mondo un mezzo tedeschino, che diverta e riempia la tua vita… un bambino che romperà i piatti, e tirerà per la coda il tuo cagnolino e tu lo guarderai e sarai consolata». Ma il bambino non venne alla luce. Quanto al “vaudeville”, cominciò a scrivere  “Il giardino dei ciliegi”: ci lavorò con entusiasmo, lo abbandonò e lo riprese: fu deluso e si entusiasmò di nuovo: quella che lui chiamava “la sua farsa”  gli sembrò qualcosa «di smisurato e di colossale», che gli faceva paura; e alla fine, placato e gioioso, spedì a Mosca la sua commedia il 13 o 14 ottobre 1903. Voleva partire anche lui per Mosca. «Svelta, svelta, chiamami vicino a te, a Mosca “, scrisse alla moglie. “Non ne posso più di vivere senza teatro e senza letteratura…”  La rappresentazione del Giardino dei ciliegi non gli piacque per nulla: secondo lui, Stanislavskij non l’aveva compreso, interpretandolo come un dramma sociale. E poi aveva fissato la prima della commedia il 17 gennaio 1904, in onore del suo quarantaquattresimo compleanno. Lui detestava i compleanni. Quella sera  faceva freddo e se ne  restò a casa, molto contrariato. Ma fu costretto ad andare a teatro, alla fine del terzo atto; venne letteralmente prelevato dalla sua dimora e trascinato sulla scena, con gli spettatori in sala, tutti in piedi,  in delirio, che lo applaudivano.  Lui si sentiva fuori posto, totalmente estraneo, a disagio. Ci furono discorsi, enfaticissimi e noiosissimi, di giornalisti, attori, presidenti di circoli letterari, che incensarono per più di un’ora un uomo che aveva sempre detestato i complimenti.  Pallido, esangue, Cechov strizzava gli occhi sotto la luce cruda della ribalta. Non riusciva a reprimere gli accessi di tosse: non sapeva che fare delle sue mani scheletriche. Dopo l’ultima ovazione, si ritirò, senza aver pronunciato una sola parola, o cenno  di ringraziamento. Stanislavskij disse crudelmente: «Si respirava come un tanfo di funerale». E infatti, il funerale non era lontano.

Una coppa di champagne e la felicità
Le sue condizioni continuavano a peggiorare. In giugno la moglie decise di portarlo a Badenweiler, una piccola città d’acque termali non lontana da Basilea, dove si curavano i malati di TBC. Con Olga si erano scritti qualcosa come quattrocento lettere, ma praticamente non erano mai stati insieme. “Non è poi così male il matrimonio, vero?” Gli disse la moglie e lui sorrise. Il 1° luglio 1904 sembrò star meglio: ma a mezzanotte e mezza si svegliò e chiese ad Olga di chiamare un medico. Il dottor Schwörer arrivò alle due del mattino. Cechov si rialzò sul guanciale e disse con tranquillità grave: Ich sterbe, «io muoio». Il medico ordinò una bombola di ossigeno. Cechov protestò: «Ora, tutto è inutile. Prima che portino la bombola, sarò un cadavere». Allora il dottor Schwörer ordinò una bottiglia di champagne. Cechov prese il bicchiere, si volse ad Olga e disse sorridendo: «È da molto che non bevevo champagne». Vuotò lentamente il calice e si distese sul fianco sinistro. Qualche istante dopo, smise di respirare…E forse per un attimo rivide il suo “giardino dei ciliegi”, futile nella sua decrepitezza e nella sua rinascita, futile nei suoi inverni e nelle sue primavere, un eterno arrivo e un’eterna partenza…

Rieccolo Cechov, che se la ride sotto i baffi e la barba , e,  con la sua magica stecca da biliardo, tocca i suoi personaggi-biglie, li fa rotolare e – zac! – li manda in buca, uno dopo l’altro, con una perfetta carambola, tra un sorriso ironico e un gesto di pietà. Salutiamoci con leggerezza e ironia, amici, dice Anton, a noi spettatori, Ma poi d’un tratto il discorso si fa invece più profondo, malinconico, poetico, doloroso, specchio della nostra condizione esistenziale che è di nostalgia, di fuga da un destino di morte, di bisogno continuo d’amore, di rincorsa perenne, irraggiungibile, della felicità. Che non esiste, dice Anton: “La possiamo solo aspettare, sognare, desiderare…”

Augusto Benemeglio


3 risposte a "Augusto Benemeglio: Il matrimonio di Cechov"

  1. E’ un continuo arricchimento leggere i “ritratti” di Augusto, lo scavo nella vita dei grandi e non, alla ricerca di prove ulteriori sulla limitatezza, imbecillità, ingenuità degli esseri umani. Il tutto con com-passione e stile inconfondibile. Naturalmente si tratta di un estratto di un’opera in divenire, come succede spesso con Augusto c’è un lavoro teatrale all’orizzonte.

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  2. “la medicina è la mia moglie legittima, la letteratura è la mia amante”, amava dire il bisnonno Antonio, uno dei miei scrittori preferiti, al quale mi ha legato sempre un’affinità cerusica (che sia un caso?) nonché letteraria profonda. ergo, devo dire che mi ha fatto molto molto piacere leggere questo ritratto intenso e particolarissimo tracciato da Augusto Benemeglio, soprattutto perché di solito non mi interesso alle biografie degli autori, nemmanco di quelli che amo in modo particolare. l’idea, magari sbagliata, che mi sono fatto in mezzo secolo di vita è che le note biografiche siano spesso e volentieri “superflue”: c’è di più dell’autore tra le righe dei suoi scritti che nella sua intera vita o nelle parole di amici e conoscenti intenti a romanzarcelo per interposta persona. dico questo, a costo di apparire rompiballe (cosa che in realtà, fanciullesca mente sono) perché l’immagine di un bisnonno Antonio che tratta “gli uomini con freddezza diabolica, indifferente come la neve e la tormenta” proprio non riesco ad interiorizzarla senza un moto di fastidio. nelle sue parole rammento un generale rispetto per l’umano e un dolore, un’inquietudine da *esorcizzare* – non da negare – cacciando beffardamente il dito nelle piaghe della società del tempo (società che in ultima analisi, G.B.Vico docet, si ripete pedissequa in ogni diversa epoca della storia umana). di più, stento a credere che “si nascondeva dietro l’ironia”: l’ironia è assai di rado un paravento, anzi, per come lo conosco, posso dire che il bisnonno Antonio la usava come la lama affilata di un bisturi che recide in profondità il tumore mentre il paziente è sotto gli effetti del protossido d’azoto, il “gas che fa ridere e persino diventare poeti” https://www.corriere.it/salute/13_aprile_07/protossido-azoto-gas-esilarante_4ce7ef5c-818d-11e2-aa9e-df4f9e5f1fe2.shtml. l’altro passaggio che mi ha lasciato dubbioso, è quello in cui sta scritto “lo stesso Cechov pensava di se stesso che era un uomo disabitato, vuoto, privo di quel misterioso qualcosa che è necessario alla letteratura”. la sensazione è che si travisi il senso ironico di tale autoritratto. in effetti, penso proprio che il bisnonno intendesse rimarcare il suo essere alieno ai “letterati” più che alla “letteratura”: allora – come pure oggi – esisteva una corposa fauna di letterati adusi a frequentar salotti buoni, simposi e circoli (facendo mostramercato di sé e clientelare scambismo di plauso e di baci) che il bisnonno non amava per nulla. “non mi sento un intellettuale, un eletto, o meglio, un *eletterato*”, ecco ciò che intendeva dire : )) sì, insomma, la difficoltà – come spesso accade, se non sempre – sta tutta nel rapporto carnale tra forma e contenuto, ovvero, in pratica, tra letterato e letteratura, tra parola scritta e non detto, nonché tra esteriorità e subconscio. infatti il bisnonno Antonio scrisse, da qualche parte, che “è inutile sostituire il naso dipinto in un ritratto con un naso vero nella speranza di renderlo più realistico”. e in proposito, mi domando se la spiccata predilezione degli artisti *intellettuali* per il serioso e per il dramma “vero o verosimile” non possa essere soprattutto il frutto di una frustrazione creativa ancestrale, una sorta di “invidia del pene divino” che “bang! e eiacula nel nulla il cosmo”… mmmm, ecco, sto di nuovo delirando – sorry – o forse no. mah, chissà… resta il fatto che un forte senso del pudore impediva al bisnonno Antonio di violare la *nuda interiorità* esplicitandola a parole: al suo lettore spettava (e spetta) l’onere di unire i puntini, di giocare al “cosa apparirà”, di intuire il filo d’Arianna delle pulsioni che innescano gli agiti umani. ecco dunque che il non detto costruito attorno all’interazione tra i personaggi (pensieri, desideri, sensazioni, emozioni che “come biglie, li fanno rotolare e – zac! – li mandano in buca, uno dopo l’altro, con una perfetta carambola”) assume un significato perfino maieutico stimolando un’attiva mentalizzazione da parte del lettore. vabbè, per stanotte ho straparlato abbastanza. grazie ad Augusto Benemeglio per gli spunti di riflessione e per l’amore dimostrato verso il bisnonno Antonio, medico incapace di curare se stesso, ma sempre pronto a ridere dolorosamente sotto i baffi.

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