Vittorino Curci, Note sull’arte poetica – Primo quaderno (Spagine, 2018)

Se pochi leggono poesia, saranno ancora meno quelli interessati alla critica poetica. La prima sta vivendo una stagione di rinascita, anche grazie al web, la seconda, invece, resta all’angolo, stretta tra accademismo e lobbismo letterario. Personalmente diffido tanto della poesia social, quanto della critica poetica sistematica, la prima è afasica, la seconda miope.

Imbattersi nelle Note sull’arte poetica di Vittorino Curci è come bere un bicchiere d’acqua in una controra bodiniana in un qualche piccolo centro salentino. Sarà che l’autore è un musicista, sarà che è un dinamico operatore culturale, questo libretto di 173 aforismi sulla poesia, scritta e letta, quella propria e quella degli altri, ha un ritmo sincopato che lo rende davvero plastico, vivo e vivace. È dunque un’opera fulminante. Che si legge in un sorso.

Presentato come Primo quaderno, preannunciandone così altri a seguire, la facilità di lettura non ne fa per questo un libro facile. Direi che è un libro liquido, ma non nel senso post-moderno, bensì nel suo richiamo, come si è detto, all’utilità primaria dell’acqua come bene comune. Dissetandoci ci rende più lucidi, perché appagati, di fronte al rapporto con la parola poetica e all’autore. Ci ridà la giusta misura rispetto alla poesia che “non dice nulla, eppure dice tutto.”

Scrive Vittorino Curci che “la poesia è la prova che su questo pianeta la specie umana è esistita davvero.” Ogni forma di poesia, aggiungo. Anche se il tratto distintiva della parola mette in contatto diretto la poesia scritta con il silenzio e l’ascolto. “In poesia le parole vogliono dire qualcosa. Scrivere poesia perciò vuol dire essenzialmente ascoltare.”

Concludo con un aneddoto non inutile qui. Con Vittorino Curci abbiamo, prima che leggessi il suo libro, abbiamo condiviso il ricordo di un film di Ingmar Bergman. Luci d’inverno è la storia di un prete tormentato dal silenzio di Dio che nella scena finale si trova a celebrare in una chiesa completamente vuota. E Curci scrive che “la maggior parte di coloro che scrivono poesia oggi in Italia si trova pressoché nella stessa situazione.” I poeti, tuttavia, si ostinano a scrivere perché sanno in silenzio che Dio prima o poi parla.

 
Pasquale Vitagliano


5 risposte a "Vittorino Curci, Note sull’arte poetica – Primo quaderno (Spagine, 2018)"

  1. Le note raccolte da Vittorino Curci, costituiscono un libriccino prezioso. Facile da portarsi appresso e da tirare fuori, come dice Pasquale, per dissetarsi. E’ in definitiva un “trattato” che invita alla riflessione, dà il “la” ma poi sta al lettore continuare. Non sono in sostanza frasi ad effetto, come si è soliti aspettarsi dalla forma aforistica, ma dei grumi di pensiero, di esperienze di tutta una vita, in una visione a 360 gradi dell’arte, di un poeta musicista che nei reading/concerto fa dialogare il suo sax con i suoi versi con una naturalezza che viene dall’anima e da anni di studio e ricerca. Soprattutto si chiede, oltre al significato di poesia, che senso ha fare poesia ai nostril giorni. E la Chiesa vuota del film di Bergman cattura benissimo lo stato delle cose.

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  2. I poeti vogliono celebrarsi, parlare di loro stessi ma solo ad altri poeti. Fintanto che non spacchetteranno la poesia, continueranno a celebrare nelle loro chiese vuote. Te li immagini Abele, se i panettieri volessero vendere e dare a mangiare il loro pane soltanto ad altri panettieri? Sarebbero grassi da far schifo e il resto dell’umanità morto di fame. Ognuno si viva l’ars poetica come meglio crede, è così almeno fin dai tempi di Orazio, but not in my name.

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  3. non ho avuto la fortuna di leggere qualcosa di Vittorino Curci, quindi mi limito ad un commento marginale circa il prete bergmaniano che officia in una chiesa completamente vuota citato nella bella recensione di Pasquale Vitagliano. in effetti, come già notavo in passato anche su questi schermi, il Poeta in genere parla più che altro a se stesso. per contro, il narratore – che beninteso può anche essere poeta (ma minuscolo) – parla essenzialmente agli altri. in tal senso la precedente immagine della messa in una chiesa vuota non solo è simbolo di ostinazione, ma anche di solipsismo ed incomunicabilità, cosa su cui non dovremmo mai smettere di ponderare e riflettere (anche perché, come recita un vecchio nanoforisma: “l’incomunicabilità muove il mondo”, eh…). emblematica poi, almeno dal mio umano punto di vista, la riga finale della recensione in cui il cerchio si chiude con l’allucinazione ventriloqua di un dio da parte del Poeta. parafrasando Flavio Almerighi: “ti li immagini Abele, se i panettieri volessero venere a dare a mangiare il loro pane al silenzio?”
    : ))

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  4. Anch’io non ho mai letto Vittorino Curci, e mi piacerebbe vorrei leggerlo questo libro, ma vedo che non si trova sulle piattaforme che uso, come ibs o abebook.
    Comunque non sono d’accordo su quello che sostiene Malos, io non penso affatto che Dante, il Leopardi o lo scrittore di Upanishad, abbiano scritto solo per sé stessi, pur con le evidenti differenze di temperamento, l’uno estroverso e dentro le cose del mondo, l’altro di fronte al nulla eterno con il fragile infinito della poesia, l’ultimo di fronte alla sintesi dell’io con l’essere, hanno parlato nei secoli a milioni di persone, certo questo bisogna saperlo fare, un secolo alla memoria del successivo passerà una decina di poeti, a fronte di migliaia che scrivono. Se un’immagine, un po’ sarcastica, della poesia è il gridare nel deserto, o in una chiesa vuota, la prosa la vedo allora come il libretto delle istruzioni, che è utile, perché se fatto bene mi aiuta a fare la manutenzione del modem o del frigorifero. La poesia invece usa il linguaggio (che è strutturato come un inconscio) per esprimere cose utili al proprio essere, non ai propri oggetti, cosa che il manualetto non può fare. Poi ovviamente bisogna avere una definizione confrontabile di poesio o prosa, perché se io parlo della prosa pensando all’autobiografia di Pippo Baudo, e l’interlocutore pensa a Delitto e castigo, potrebbe scattare l’incomunicabilità. Infine, io ho provato la sensazione di gente che scrive solo per sé stessi di fronte al Finnegans wake, alla Fenomenologia dello Spirito, e a Essere e tempo, che sono scritti in prosa, ma anche in questo caso probabilmente non è vero, sono solo scritture difficili, se uno legge un trattato di relatività generale, senza avere l’umiltà di aver studiato, che so, l’analisi matematica o il calcolo tensoriale, penserebbe di trovarsi di fronte a una cosa involuta incomprensibile e scritta per sé.

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  5. Grazie agli autori dei commenti. Tuttavia, non sono del tutto d’accordo sul cenno alla autoreferenzialità e al solipsismo. La chiesa non e’ un luogo per se stessi. Al contrario. La chiesa nella quale il sacerdote e’ rimasto solo e attende la voce di Dio esprime altro: la solitudine della parola poetica e l’ostinazione della sua voce. Dunque, ribalto la lettura di Flavio Almerighi, se c’e’ un poeta che ambisce a fare un reading in una chiesa stracolma sarà un poeta fortunato certamente, ma dubito che la sua parola possa andare oltre la vanità dell’ascolto della folla. E non credo proprio che un poeta che cerchi il riconoscimento del lettore in fondo dia importanza al lettore stesso. Per lui quello che conta e’ la sua vanità.

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