“CLAUSTROFONIA – sfarfallii – armati – sottoluce” di Doris Emilia Bragagnini, prefazione di PLINIO PERILLI

Tu voce che vieni dagli inferi smessi

(A Doris Emilia Bragagnini,

claustrofonica nonché ipernauta…

Fra il cuore dinosauro e il niente che tiene)

In principio era il verbo… Ovviamente andiamo scrivendolo con la minuscola – nessuna tentazione di mimare, esplorare un nuovo incipit da Quinto Evangelio. E il verbo non è presso Dio – ma dentro l’Io: io egualmente Uno e Trino, trattandosi, in pieno regno di Psiche, di Io, Super-Io ed Es o Subcosciente…

come sembra stretto il mondo
senza una parola per entrare

Doris Emilia Bragagnini – calma solo in apparenza, al massimo entità ctònia, sotterranea come certi fiumi carsici del suo Friuli – semina inquietudine e centellina, rintana vigore anzitutto nel Linguaggio, ecco qui: nel verbo di cui fa, erige ogni volta un nuovo fulcro e un nuovo incipit, per il corpo e l’anima, per la vita e la Storia, per la poesia e la sua essenza…

desiderio la parola da dire
o bramosia di parole mancanti
questa inutile leggerezza dei pensieri
il vuoto è in alto in basso ai lati e in un dentro
che mi assopisce ogni vivere intatto. pressappoco

Strana e semplicissima, Doris attinge, s’inventa dunque una formula che elegge a titolo, un neologismo bizzarro mediato, innovato tra Claustrofobia (l’eterna paura dei luoghi chiusi, ristretti) e Claustrofilìa che è viceversa la tendenza patologica a vivere i luoghi chiusi, a separarsi dagli altri… Elvio Fachinelli – allievo di Musatti – ci dedicò un saggio, anni fa )1983). Ma questa è un’altra storia.

Altra vicenda è anche il fatto che questo neologismo è da tempo il nome di una band rock piemontese: i Claustrofonìa, che trattandosi di musica dovrebbero intendersi come i Musicisti (rock) del chiuso, dell’ambiente ristretto… Salta il significato di fobia o filìa… Rimane solo la sostantivizzazione del Suono Chiuso, suono nel chiuso, insomma del suonare (assordare?) al chiuso…

E torniamo a tutto ciò che per Doris è claustrofonìa poetica (o magari sliricante, per malessere appunto impoetico)… Fulcro di tutto ciò, un testo che appare in rete già nel 2012:

il muro tace, non risponde più
si lascia guardare angolandosi
in riproduzioni lessicali nei passi
o sfarfallii – armati – sottoluce

ogni tanto un urto di temperatura
differente, a porte chiuse ] tolte le dita
da maniglie ingoiate a sorsi uscite laterali
agglomerate al bolo circolante, contropelle

Stranissimo sonetto irregolare, caudato dal vocativo dell’invito finale… Due quartine e due terzine, insomma, vagamente visionarie, eppure accanite d’ogni allusione o “retrogusto”, echeggiamento concettuale possibile…

la risalita dei ricordi sfida il cemento
dell’anima in guardiola, divelta e sugosa
chiaroscuro del Merisi

stretto chicco d’uva fragola come fosse un uragano
moltiplicato a schizzi su pareti in guanti bianchi
divaricate a terra ora

 “… tu aprimi al tuo fiato singultato, viola di Tchaikovsky”

Dove davvero non manca niente: il sartriano muro novecentesco che ora diventa installazione, nobile reperto scenografico resosi angolandosi oggetto d’arte, infine deriva materica, indi monumento stesso lessicale, pronto a riprodurre suoni, divinazioni rumorose quanto inconsce, inopinate… A porte chiuse è un’altra famosa pièce esistenzialista, mentre l’intero primo verso della prima terzina, e del resto l’intera terzina insieme moderna e caravaggesca, sfida ogni rifrangenza possibile, echeggiamento psicocritico a quel che resta d’un ermetismo fuori stagione, elegante e gnomico, alienato di significanza: “la risalita dei ricordi sfida il cemento / dell’anima in guardiola”…[…]

[…]

[…]Poderosa e affilata, la ricerca di Doris privilegia, investiga e macina linguaggio come unica vera risorsa, carburante e vicissitudine del fare (pensare e pensarsi) poesia… Di volta in volta, se ne libera e se ne danna, se ne libra e se ne ammanta… Qui vanno anzi in scena, tutte le gesta, tutte le diatribe e le speranze, insomma i miracolosi, espressivi travagli, del destino del Linguaggio:


furono giorni freddi senza appello, delle – madri
vestaglie su grembiali da gettare
lenzuola stese dondolanti come strappi nella carne
le parole sì le parole [agiscono] frontalmente appese
come insetti sulla carta moschicida
 
Ecco allora un inesauribile flusso di coscienza, cupo o rischiarante per gli stessi estremi; e che in se stesso già si fa viatico, anzi “Salvacondotto”:

come si altera un presidio dell’io così non disposto a recedere
ad ammettersi altro che non identico a sé
come si ottiene una tregua un lasciapassare uno scatto al traguardo
vedersi finalmente diversi nell’eguale alla parte più vera di un mondo
che genera il movimento abitato del volto la fiamma nell’occhio
il tremore della voce che traspare evidente all’udito più dolce
                                  vicino       gemello

 

                                               *******

 
A specchio, per rifrangenze incrociate, parallele o secanti, infrante o affrante di mera, istintiva emotività, riflessive ad libitum, queste sue poesie sono ipotesi e già sentenze inoppugnabili; diagnosi omeopatiche o teoremi psichici; molto spesso, anche (vado citandola), carboncini, schizzi tratteggiati di una storia:

dell’attribuire segno
equidistante crederlo assunto in congiunzione di specchio
quante volte mi hai amata dove ti ho amato io
 
Altrove, nel graffitaggio interiore di “Notes”, l’autrice si racconta – vorremmo dire s’autoritrae – mentre disegna gestalt, e cioè, lo sappiamo, in psicologia, l’insieme delle strutture formali di una percezione, per cui essa si configura non come giustapposizione di particolari, ma quale totalità organizzata…

disegnava gestalt
fiori come zanzare incapaci di volo
delicata zavorra di segni gufati nel mentre
 
il sotto, un volto incessante
trapunto di bianco era forse suo padre
non attecchito risvolto cruciale
il rifiuto che genera il vuoto, mutismo
di un foglio piegato come si piegano i figli
per farne ___________aeroplani _______
 

Inutile soffermarsi sulla bellezza visionaria di certi passaggi, disegni pressoché archetipici (il padre come volto incessante… il mutismo di un foglio – attenzione alla clamorosa, spigolosa boutade – piegato come si piegano i figli)… È stato Roland Barthes, nei suoi felici anni Settanta, a giocarsi in contrapposto alla scrittura il termine diremmo euristico di scrizione:

  “… amo la scrizione, l’azione con cui manualmente tracciamo dei segni. Non solo mi salvo, nella misura del possibile, il piacere di scrivere i testi a mano, ricorrendo alla macchina solo in una fase finale di copia e di critica, ma anche e soprattutto amo le tracce dell’attività grafica, dovunque si trovano: nella calligrafia orientale e in una certa pittura, che a questo punto converrebbe chiamare ‘semiografia’ (per esempio in Masson, Réquichot, Twombly).”…   

Non di rado, quando tout se tient, qui fioriscono come piene e risolte “illuminazioni”: lirici approdi senzienti; infine, l’impertinente e intrigante sensazione – posa, anche, autoironica – di uno smarrito ma arreso, pregustato “Sbuffo capitale”…

nel bieco patetismo di un pupazzo
– non sono mai stata così rotta –

non si ha più sonno quando si teme d’invecchiare
le mani si fanno lunghe quanto rovi senza more
le dita raddoppiano si moltiplicano, come d’inverno
uncini verso il cielo e passa di qui spesso
un vento spurio di corpuscoli odorosi
rastrella i segreti della via li soffia sul collo

E vale anche per l’inesorabile ironia gnoseologica “Dell’indocilità delle rose per esempio” (“per giustezza ho scampato il tempo della fuga”), con quella luce calante ma eternata, e quelle “ricordanze” divagate e declinate sul “relativo”, che ancora una volta giungono alla poesia come schizzo o disegno, metempsicòsi del linguaggio e dello spirito, ombre o macchie di Rorschach che escono però perfino dai canoni stabiliti, dai glossari o dai pantoni (ir)riconoscibili d’ogni test “proiettivo”, psico-diagnostico:

si allungano le ombre sotto la porta ora
sono cunei d’eterno come certi pomeriggi parrocchiali
della processione e dei petali nei cesti

Certo questa poesia è un nudo, incorrotto resoconto sensibile, ma anche un’abile, agile e perenne esercitazione d’intelletto… Già i titoli ne captano l’ironia, o comunque la gnosi in progress… “Bastanza”, “Centrifuga breve”, “Marcetta in Do, minore”, “Circonduzione di capace”, “Apnea del ticchettio”, “Madame Confetto”, “Sssssst”…

ti faccio passare ti cedo il passo.
quando erano le parti a toccare le parole
osavo mettere la voce su ogni punto e nominarlo da renderlo palpabile
ora non ho il fervore necessario, smarrisco il portanuvole, ti ometto

Tra corpo e anima, nessuno vince, perché al massimo s’impone una patta, una tregua armata tra allenata, temprata disperazione quotidiana, ed altrettanto caparbio, strutturato romanticismo sognante… E comunque è questa sola, adempiuta – scherza Doris – la “Condizione di un assenso”:

del corpetto vetrocemento
non infrango trasparenza – mi puoi aprire – da ogni lato
scegliere il blu verso il crepuscolo oppure il rosso lato cuore
se non pratichi l’oltranza di una cattedrale, per sostegno emozionale

Prima il cemento, ora il vetrocemento… Sembra il catalogo dei materiali da (de)costruzione! E il corpo bello, il corpo che lo è anche dell’anima?

avevo un corpo un tempo lo sentivo contro il vento
ci sono punti d’attracco che sanno perdermi lo stesso

Ecco, una sorta di compianto del corpo/corpo, qui aleggia e si radica ovunque, in seno alla raccolta e dentro tutto il suo fieri: corpo incorrotto, intonso ai pensieri, alle ostiche ostili ostinate (e perfide) elucubrazioni, disseminate un po’ ovunque come briose, ineludibili spie del malessere:

c’è un asse kamikaze capace di perforarmi il centro
quando scende da chissà quale meridiano cerebrale

“Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu”, era un assioma usato da Tommaso d’Aquino come cardine della filosofia scolastica… Locke lo accolse nella sua teoria sull’origine delle idee – e Leibniz, da par suo, volle integrarlo con l’aggiunta del “nisi ipse intellectus”

Ricapitolando, niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi: eccetto l’intelletto stesso

E tutto ciò, sembra essere squisitamente vero anche per la Bragagnini, che farcisce e dissemina la sua raccolta di intriganti, significativi filosofemi perfettamente a cavallo tra astrazione, rarefazione intellettuale e dedizione o accensione sensuale. Basti pensare all’ironica apertura di “Blitz”:

Sono un’illusione ottica (e sonora) un catarifrangente d’estesia
una di quelle che non stanno nel mondo ma ci passano accanto
vedono ascoltano mangiano ma non per davvero, lo mimano dentro

(Ed ecco ancora la sprezzatura ironica, cioè dequalificare le proprie qualità per affabile, salace autoironia)…

insapore incolore inessenziale per difetto d’attesa
esigente lancinosa spina (tra) palpebra e pupilla

Ma per converso eccoci alla chiusa, che è comunque una risultanza dolente, una meditazione insieme sorpresa e allibita dei casi umani, quando ci terremotano dentro (sismando è un gerundio insieme sintomatico e disperatamente raddolcito, fino al puff madornale e buffo del periferico centro inesploso, che è un ossimoro già assai sarcastico di suo):

Torsolo il dolore, l’azione che sbatte una mossa al secondo
sismando sterminati frutti (sonoaddii sonoaddii sonoaddii…)
colpiti nel punto più esatto di un periferico centro inesploso: puff

Tutto questo, ripetiamo, è registrato, riassunto e verbalizzato in un “Blitz” che leggiamo insieme linguistico ed esistenziale – com’è in fondo tutta la sua poesia, la poesia di Doris, votata all’OLTREVERSO (Zona, 2012 –: che già allora, Augusto Benemeglio, apparentava comunque, in ordine sparso, a “l’enigma, il rischio, il labirinto, i voli alla Icaro e le cadute, terribili, dello spirito, la vibrazioni dei cieli più bassi”… insomma infiniti e parcellizzati “smarrimenti dell’io”)… […]

[…] – conscio o meno, come sempre nei casi migliori di deriva, naufragio e poi salvazione – qui il surrealismo è sempre in fervido agguato: al limite, sul ciglio, nel vortice d’ogni virtuale, immaginifica scenografia o figurazione della Dea Realtà… Fumosa e accanita, arcigna ma affabulante, fiera e sensuale, sempre la Doris ci attende, ci riceve come dentro un quadro o diagramma di Magritte…  Plinio Perilli

(Tu voce…) Prefazione Plinio Perilli per CLAUSTROFONIA (versione completa pdf)

*

selezione di alcuni testi

dalla sezione “sfarfallii- armati – sottoluce”

Sol_a Gratia

cerco la nota distorsiva – quella – capace di cancellare il nesso
l’ordine cruento mille volte verticale rinnegato con lo sguardo
[non spero]

giù nel basso declivi imbarbariti e calmi
una luce così tonda da cingermi nei passi del novembre eterno –
sbaragliando bianconigli facile spogliare il mondo di sentori d’erba
ruminata viva, senza muovermi di un giorno [o suono]

*
L’amaca fenice

nulla chiama forte da farsi udire, è un movimento sotterraneo
il dispetto conquistato d’alfabeto e ho un piccolo lobo d’orecchio
o forse meglio un lobo piccolo
c’è sempre un modo migliore di dire le cose per esempio
c’è un posto che non so quando dovrei dire quello che c’è
ma che non trovo – lo faccio scomparire

vorrei trovarlo per intero mi manca almeno quanto l’aria
tutta intorno se ci si sveglia nei giorni come crisalidi abbozzate
in un futuro pocket che pesa d’eterno
piccole dosi di massiccia confettura è limacciosa la sostanza
congetturale stringe sugli arti come carta moschicida
ti dondola sul nulla il palinsesto della vita, a favore di vento

il gancio – sospeso – al diritto d’uscita

*

Blitz

Sono un’illusione ottica e sonora un catarifrangente d’estesia
una di quelle che non stanno nel mondo ma ci passano accanto
vedono ascoltano mangiano ma non per davvero, lo mimano dentro

insapore incolore inessenziale per difetto d’attesa
esigente lancinosa spina (tra) palpebra e pupilla

Torsolo il dolore, l’azione che sbatte una mossa al secondo
sismando sterminati frutti (sonoaddii sonoaddii sonoaddii…)
colpiti nel punto più esatto di un periferico centro inespoloso: puff

*

Sbuffo capitale

nel bieco patetismo di un pupazzo
– non sono mai stata così rotta –

non si ha più sonno quando si teme d’invecchiare
le mani si fanno lunghe quanto rovi senza more
le dita raddoppiano si moltiplicano, come d’inverno
uncini verso il cielo e passa di qui spesso
un vento spurio di corpuscoli odorosi
rastrella i segreti della via li soffia sul collo

a volte uno chignon inganna lo spillone
un nodo per alture da giraffa offre la nuca

*

dalla sezione “ipernauta”

Apnea del ticchettio

scende una mano sulla testa
tiene agitando la corolla del provare a vivere
e sbatte sbatte cerca lo stacco l’addormentamento netto
il krak che sia notturno rimanere subacqueo, respiro
senza bolle di speranza – ricordo lucine polveri nel sole

c’è un treno nell’orologio riga le guance da nord a sud
si ferma all’orlo di un pudore fatto cometa

*

dalla sezione “se il fiore dell’ora”

Mappa Valentino

semplifico ammutinando nel pensiero
ogni parola che si getti a tuffo
in conclamati deserti descrittivi
l’intraprendenza all’artificio
– gli stivali dalle sette leghe –

dove finiscono i tratti inconsapevoli
quelle precise strade separate, dove
incontaminati i sentimenti gettano ami
al proprio cuore s’invogliano bruciando
del proprio ostinato segreto

*

dalla sezione “regoli”

Grand Hotel

La sensazione del rosso, un certo rosso
moltiplica nell’esatto dislivello tra unghia e dito
è lì che scurisce la figurazione della vita

Edda non ricorda di sognare. Dopo che ha smesso
darsi la lacca nei giorni è stato per non perdersi
– una scadenza annullante il duro dei dettagli
e solo per pochi centesimi. Zero sensi di colpa

*

dalla sezione “eroi celesti”

L’era

il mio cuore è un dinosauro
perduto sommerso mareggiato
non lo troveranno mai e
se anche fosse
sono certa sarà erbivoro

diceva la matrigna che piuttosto
era peloso [il cuore dinosauro]
non ci volevo credere
ho capito poi che forse era davvero
per proteggermi dal gelo

*

dalla sezione “giunchiglie trapassate”

Dell’artificio

dovrei sballare darmi carica e saltare in aria le parole
fitte – che mi stanno in testa
mi discendo e non so vedere dal castone predisposto nel passaggio

_ho creduto a Dylan Thomas, all’ordine del topo delle cose
un rumore in costruzione nell’orecchio antecedente il verso
ora – crollo – senza stordirmi valuto il nome, orgia del suono

*

dalla sezione “nonnulla da tenere”

ci sono stati pomeriggi d’altri mondi e l’attesa
scolorita sopra il volto di un passero confuso
inconfessato nel bisogno di uno specchio intonso

___

sinopia disgregandomi
al contrario essere traccia
transitorio è il mare come berbero
assordato dall’azzurro teme il giorno

___

mendico di me le pause tra i pensieri fatti a imbuto
sulla pioggia dei nonnulla da tenere per domani
domani saprò vederli sentirli nominarsi
e si sapranno dire, in questo inesauribile fragore

___

desiderio la parola da dire
o bramosia di parole mancanti
questa inutile leggerezza dei pensieri
il vuoto è in alto in basso ai lati e in un dentro
che mi assopisce ogni vivere intatto. pressappoco

 

*

Doris Emilia Bragagnini è nata in provincia di Udine dove tuttora risiede, suoi testi sono presenti in alcuni periodici online e cartacei tra cui Carte nel Vento a cura di Ranieri Teti, EspressoSud a cura di Augusto Benemeglio, Noidonne a cura di Fausta Genziana Le Piane, in varie antologie (tra le quali Il Giardino dei Poeti ed. Historica e Fragmenta premio Ulteriora Mirari ed. Smasher), in blog e siti letterari tra cui  Neobar e Il Giardino Dei Poeti (collabora in entrambi come redattrice). Ha partecipato ai poemetti collettivi “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello” e “Un sandalo per Rut” (ed. Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011). Il suo libro d’esordio è Oltreverso il latte sulla porta(Zona 2012) seguito da “Claustrofonia” (Ladolfi 2018) segnalato al Premio Lorenzo Montano (2017 inedito/ 2019 edito), segnalato al Premio Bologna in Lettere (2019), selezionato tra i venti editi finalisti al Premio Pagliarani 2019, segnalato al Premio Umbertide xxv Aprile (2020).

 


16 risposte a "“CLAUSTROFONIA – sfarfallii – armati – sottoluce” di Doris Emilia Bragagnini, prefazione di PLINIO PERILLI"

  1. Ogni componimento in sé compiuto. Poesie “tele” come di neoclassico surreale
    sinfonie di spazi in sospensione….. sensibilità sensazione
    La cura l’affetto l’effetto – la bellezza dei segni…
    poesia che spiazza nello svelarsi intimo, evoca con soffice ironia luoghi reconditi…
    Come invito al lettore a destarsi dal suo torpore,
    (ri)entrare a passo di danza nelle strettoie del mondo –
    nell’incedere orizzontale che si apre a respiri salti voragini

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  2. Saluto con piacere il ritorno alla pubblicazione di Doris, autrice di di talento, capace e suggestiva. Penso che Abele abbia già detto molto. Limitandomi all’articolo qui sopra, onestamente non ho ancora letto il libro, vorrei sottolineare la minuziosità e la tenacia dei lavori di Doris appena letti.

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    1. Grazie, Annamaria. Molto bella anche la tua lettura. Ho lasciato un commento sul sito ma non lo vedo ancora; lo riporto qui: “Lettura acuta e puntuale di una scrittura barocco-onirica profondamente umana, capace di condurre in luoghi impervi e lontani dell’anima e della memoria e farsi partecipe, con una punta d’ironia, di una umanità ormai alla deriva.”

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    2. Cara Annamaria
      la mia per te è vera e profonda gratitudine, e solo per rispetto del viandante che passerà per la lettura non esprimerò in precise motivazioni che andrebbero a spiegare di quanto tu abbia colto e visto attraverso i miei segni, per lasciare libertà a ognuno di orientarsi ma, io ti sono grata dal cuore… come ti scrissi: se ho una fede è quella nella Poesia. Nulla oltre lei riconosco come “potere”, tu tra tutto hai colto anche la mia profonda anarchia… Oltremondo, l’amnios di cui hai parlato, è bello tu lo abbia visto. Un abbraccio

      Doris

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  3. “claustrofonia” mi fa pensare alla paura della voce chiusa, nasale, ripiegata su se stessa e quindi priva di risonanza perché imprigionata nell’io (il foniatra, per definizione, studia la comunicazione *verbale*).
    ecco allora sorgere spontanea la domanda: che possiamo fare quando la comunicazione non trova abbastanza spazio/libertà nella voce, nelle parole? ovvero, per rubare i versi dell’autrice, che possiamo fare quando ci ritroviamo “senza una parola per entrare” o siamo colti da una “bramosia di parole mancanti”?
    beh, chissà… di sicuro non c’è una soluzione che calzi a pennello per ogni cervello: ognuno reagisce a modo suo. ad esempio, c’è chi resta muto in silenzio, chi inventa nuove parole e chi infonde nuova voce alle parole stesse.
    Doris sceglie l’ultima opzione perché se è vero che, da un lato, le parole sono “insetti sulla carta moschicida” (il foglio le attira e le intrappola, in ossequio alla già citata claustrofonia) dall’altro per biunivoco sviluppo transitivo, le parole sono carta moschicida che intrappola voli mentali e significati in(ter)setti (“per farne ___________aeroplani”)
    pertanto, la materia prima su cui il poeta può e deve lavorare (comunicare *è* duro lavoro) diventa in prima istanza il foglio/figlio che si fa faglia di San Andreas e tartaglia e trema e sversa (“oltreversa”) camere magmatiche, piene di “inesploso” e di una visceralità davvero “ruminata viva”. la poesia, dunque come “movimento sotteraneo” capace di e-ruttare i pensieri che lo “mimano dentro”, di sparare verso il cielo fuochi di *artifizio* alla ricerca di un appiglio (“gancio” “uncini” “ami”) per avvicinarsi il più possibile al divino “pressappoco”, ovvero alla consapevolezza di.
    proprio così.
    resta solo da aggiungere che ogni volta che leggo Doris sento i pensieri farsi “inesauribile fragore” e cresco (non in altezza, ovviamente, piuttosto in acuità visiva).
    : )

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    1. Io Malos sono affascinata dalla tua mente eclettica, dalle tue associazioni interpretative, dalle tue geniali combinazioni espressive. Quando fai una lettura di qualcosa di mio lo ritengo un privilegio, sei tu che dai spazio al mio orizzonte. Le parole magmatiche sono tue e non solo in questa pagina, sempre. Leggerti è un’avventura da cui si torna più forti e curiosi ma soprattutto più vivi. Grazie!

      D.

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  4. Claustrofonia, per me, significa voce dal chiostro, dalla clausura dal recesso di una casa dove “il muro tace” e le luci franano “a capoverso di corsia”, dalla casa, una sorta di buco in cantina “di talpa sorda” o di bianconiglio conduce tra gli strati geologici ai “dinosauri erbivori”, anche nella stazione sembra non passare mai il treno, anche esplorare le galassie è viaggiare lungo un corpo chiuso e limitato. Plinio Perilli nel bel saggio introduttivo usa giustamente il termine ctonio. Timidamente faccio il nome di Holan, quello dell’ultima fase, ma senza il suo brancolare nel nulla e nel vuoto etico, ma con un horror vacui da colmare. Dopo questa chiusura iniziale, comincia infatti la scelta delle parole per la ricostruzione del canto, neobarocca, come un’esplosione che rompe i muri claustrali, fino alla bella “ Da qui a…”, dove le mura non sono più nemmeno ricordi, e tutto è un pullulare amico di creature salvifiche, cani e gatti in una sarabanda “pazzesca e felice”.

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    1. Giancarlo, che belle cose hai scritto, è così bello per me guardare il percorso tracciato attraverso altri occhi. Occhi che sanno vedere, cogliere. Claustrofonia, questo temine, così preciso, nitido e per me insostituibile nel definire una complessità d’intenti. Intenti che hai citato. L’intera silloge attraverso la parola si rivolge alla parola e alla parola che salvi, per scoprire (forse) che la salvezza non si trova oltre ciò che ha generato la ricerca ma nella ricerca stessa. Quando scrissi la poesia che dà il titolo alla silloge era il 2012. Il titolo mi apparve immediatamente come unico e insostituibile. Andai al vocabolario per accertarmi della “direzione” dell’accento che sicuramente troneggiava sulla i. Almeno questo era quello che pensavo, prima di accorgermi che questo vocabolo ancora non esiste in nessun vocabolario. Eppure è così necessario, e naturale. La “mia” claustrofonia è quella zona circoscritta dove, quando sono fortunata, la poesia viene a trovarmi.

      D.

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