Franco Intini: Sei poesie di Nunzia Binetti

Sei poesie di Nunzia Binetti

Conosco Nunzia da un decennio e pur avendo commentato più volte i suoi versi mi lascia sempre sgomento, nel dubbio che afferra la conoscenza. La sua è una poesia essenziale in cui la parola è pesata con precisione analitica e ripulita con i ferri chirurgici di ogni inutile idioma. Tutto per stilare una diagnosi amara e sofferta sulla natura dell’animo umano. Così in “ARTICOLO” dove l’essere e nascere donna sembra provenire da una legge grammaticale,

“Quel grammo di grammatica legiferante\ prova stremato a farti donna”

musica forse già spartita e intoccabile per rappresentare la bellezza nell’intero e dunque sostanza a comune con il fiore.

“Sono donna o fiore ?”

È’ questa l’origine del mistero che circonda la femminilità che non è dato scegliere tra una natura e l’altra ma di appartenere ad un ordine superiore di fertile spiritualità. In “PUELLA” torna la metafora botanica a suggellare la fragilità della condizione femminile,

“quella tenerezza amara\che sa il peduncolo \dove, seduta, se ne sta la foglia.”

anche se acerba e ancora potenziale, di foglia sul peduncolo ma pur sempre segnata dal dolore nel momento di affacciarsi alla vita.

Ne “IL TEMPO DEL MALE“  un senso di rassegnazione alla negatività pervade già dall’incipit il lettore. Da subito si ha la terribile fotografia dello stato d’animo della poetessa –riflesso di quello universale- quasi rassegnato ad un destino inesorabile e collettivo. Se alla fanciulla la vita si preannuncia nella notte non bionda all’adulta è l’alba che manca.

“Terse l’ albe che mai vedremo.”

Il giorno sereno è tolto dalla terra dove solo il dolore è possibile e ognuno vive il suo distacco nella contraddittorietà del femore che regge la frattura. La metafora rende l’idea della fragilità non soccorsa dalla moltitudine chiassosa e indifferente ma dal silenzio nella sua forma estrema di eremo, non solo come punto di sospensione e astrazione dalle vicende umane ma come ascolto di qualcos’altro a cui lo spirito anela con tutte le sue forze illudendosi forse che ci sia:

“Il femore regge la frattura\ e incorporea e ribelle, quanto un’ idea estrema \non ama la moltitudine ma il ritiro nell’eremo;\ lì regna un silenzio di pietose novizie.”

Solo così diventa sopportabile ciò che accade fuori della propria interiorità dove al dominio delle forze distruttive simboleggiate dal carminio che distrugge i deboli si oppongono forze che pur avendo la possibilità di sanare e proteggere dai mali, se ne stanno per proprio conto, senza mai intervenire.

“Il bisturi c’è, non sana,\ solo scintilla.”

L’architettura del male dunque si compone dell’uno e dell’altro aspetto in un equilibrio precario quanto efficace che estranea la possibilità di una vita autenticamente vissuta e spinge l’avversione ai compromessi, il suo senso di ribellione e rottura, verso l’emarginazione ed il silenzio. In “ARCHEOLOGIA” è la forza di un contraddittorio tra colori simboli a rappresentare il conflitto che pervade l’animo umano. Da una parte l’estrema bellezza dell’azzurro dall’altro il sottobosco verde. La mente è capace di immergersi nelle profondità del primo rimanendo quasi paralizzata da quel viola che sembra comporlo ma nel secondo rimane spoglia di ogni illusione.

“è nel verde sottobosco \(sfacelo, rimessa di morte convessa),\dove\ qualsiasi volo si spollina\ che ne esco vinta”

Così al senso di eternità subentra la precarietà, il destino dell’individuo colto nel volo che si spollina e decade miseramente, sottoposto alle leggi del tempo di cui l’immagine degli scavi è ispiratrice.

La morte stessa entra in scena in “NOVEMBRE”:

“La morte la sento venire,\ ha un rumore metallico.\ Ed io sono vetro; \ tintinno.”

in un paesaggio di desolazione col suo rumore metallico e devastatore contro cui nulla può la consistenza del vetro, il suo debole tintinnio. Bella infine “L’ULTIMO DOLORE” col suo drammatico confrontare donna e uomo nel momento estremo della perdita, l’uno legata all’altra forse per sempre dalle parole della poesia

“e inonderò \pagine bianche di poesia. \E tu, uomo, vivrai – per essa – oltre lo spazio breve \ di ogni vita o solo per tutta la durata \ della mia.”

sangue versato sulla pagina bianca quasi un nutrimento estremo portato a chi si è amato con afrore di lupa allattatrice.

****************

Testi completi delle poesie tratte dalle raccolte di Nunzia Binetti: “IN AMPIA SOLITUDINE (CFR – Editore, 2010) , DI ROVESCIO ( CFR – Editore, 2014),  IL TEMPO DEL MALE ( Terra d’ulivi edizioni. 2019):

ARTICOLO

Quel grammo di grammatica legiferante
prova stremato a farti donna
e tenta un
– la –
musicale, schioccato…in extremis
dov’è corolla,
goduria adusa ai sensi,
apologia di forma e
stupor oftalmico. « Strano,
Je m’appelle fleur»
Sono donna o fiore ?

PUELLA

Viaggiare su due gambe di bambina,
è carne acerba,
quella tenerezza amara
che sa il peduncolo
dove, seduta, se ne sta la foglia.
Forse è dolore primo,
mentre t’accorgi
che nessuna notte è bionda.

IL TEMPO DEL MALE

Terse l’ albe che mai vedremo.
Il femore regge la frattura
e incorporea e ribelle, quanto un’ idea estrema
non ama la moltitudine ma il ritiro nell’eremo;
lì regna un silenzio di pietose novizie.
Fuori dilaga e governa il carminio,
senza fede fa mattanza di indifese cocciniglie.
Il bisturi c’è, non sana,
solo scintilla.

ARCHEOLOGIA

Se l’azzurro ha nel suo dentro
un grammo di viola che distinguo
stupe-facente anestesia
è nel verde sottobosco
(sfacelo, rimessa di morte convessa),
dove
qualsiasi volo si spollina
che ne esco vinta
tra-secolata, pendolare, come
da un rientro dagli scavi di Canosa. *

* Canosa di Puglia, centro ricco di scavi archeologici, limitrofo alla famosa Canne della Battaglia (dove Annibale nel 216 a.C. sconfisse i Romani )

—-

NOVEMBRE

A questo paesaggio piatto, senza fianchi
né seni, mi tiene aggrappata la vita
o qualche novembre
che spreme olive come fossero arance
e muove ogni cosa ma in punta di piedi
-il gesto sommesso per cui sono caduta-
La morte la sento venire,
ha un rumore metallico.
Ed io sono vetro;
tintinno.

L’ULTIMO DOLORE

Verrò con il mio afrore
di lupa primitiva allattatrice
e berrò l’ultimo dolore a grandi sorsi
ma per nutrirti e non lasciare
che tu per sempre muoia.
Non scelsi di venire al mondo donna
pure ciò accadde
e la mia vocazione selvaggia è quella stessa
di mia madre
perciò perderò sangue caldo
liquido amniotico e inonderò
pagine bianche di poesia.
E tu, uomo, vivrai – per essa – oltre lo spazio breve
di ogni vita o solo per tutta la durata
della mia.

Poesie  di Nunzia Binetti, tratte dalle raccolte : “IN AMPIA SOLITUDINE (CFR – Editore, 2010) , DI ROVESCIO ( CFR – Editore, 2014),  IL TEMPO DEL MALE ( Terra d’ulivi edizioni. 2019)

Franco Intini


Una risposta a "Franco Intini: Sei poesie di Nunzia Binetti"

  1. Mi sembra una buona poesia fondata sulle “corrispondences” nel senso Baudelairiano, una foresta di simboli che collegano colori suoni e l’insieme delle esperienze umane nel loro sviluppo, e la cui grammatica è rivelata nella prima poesia. Molto bella Puella, mi riporta a quando da bambini non si reggeva ai discorsi degli adulti, e non si sapeva rispondere, e ci toglievano il colore alle notti.
    Bella e oscura l’ultima, di una primitività archetipica quella lupa allattatrice nel suo rapporto con l’ ”uomo”, così definito per me enigmaticamente, che vivrà in essa in quanto oggetto di poesia, e della quale quindi condivide la durata.

    "Mi piace"

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