5 risposte a "Giancarlo Locarno: Francesco Cangiullo – poesia pentagrammata (Neobar eBooks)"

  1. mmm… confesso che i “futuristi” mi hanno sempre lasciato un po’ freddino (tipo lo spazio siderale senza vita). intendo, mi stanno simpatici (ad esempio, l’audio della poesia pentagrammata di Cangiullo qui proposto è assai godibile), ma non riesco a cancellare la spiacevole sensazione che per cercare/trovare l’essere umano invece di “spingersi un poco dentro l’uomo” (prendendo a prestito le parole di Iole, che saluto con bacio e abbraccio incorporati), s’imbarchino per “mondi lontanissimi” (prendendo a prestito le parole di Battiato per restare in ambito musicale).
    : )))
    il che mi riporta alla vexata quaestio di come gestire al meglio il rapporto biunivoco tra forma e sostanza in poesia e ai miei limiti di parolaio secernente prose acapate che incarnano “neurodeliriche” più che Poesie. sì, insomma, riesco ad amare senza sforzo squilibri dove di sostanza ce n’è tanta (e poca forma), mentre gli squilibri opposti mi frigidizzano i neuroni.
    non a caso, ogni tanto mia moglie mi dà dello squilibrato…
    : )))

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  2. Prima che del rapporto tra forma e sostanza, il futurismo mi suggerisce quello tra soggettività e « il grande oggettivo » con cui quella confina, mi sembra una delle cose importanti l’esplorazione del contorno, o confine tra l’essere umano e il resto, ovvero l’oggettività della soggettività, tenendo conto che anche le altre persone fanno parte del « grande oggettivo ».
    Andare verso l’uomo, come dice Iole, che saluto, bisogna specificare meglio cosa vuol dire, i grandi temi umani della vita e della morte sono affrontati, mutatis mutandis, con la stessa lucidità oggi e dall’autore del poema di Gilgamesh, e quello che muta è appunto il confine con il mondo e con la storia. Credo non sia irrilevante l’esistenza della gravitazione del secondo principio della termodinamica o del capitalismo sempre più spietato nell’andare in profondità dell’uomo, altrimenti significherebbe solamente rimestare un formulario narciso-psicologistico.
    La forma e la sostanza, ho l’impressione che nei grandi autori siano in equilibrio, Leopardi e Rimbaud sapevano contare le sillabe e sistemare gli accenti secondo il metro scelto, ma questo non ha sbilanciato l’opera verso uno dei due poli, e non ha inficiato il senso e la qualità della poesia, vedo la forma metrica come un modo per segnalare che non tutte le parole vanno bene, ma serve una concentrazione per trovare quella giusta. Per la prosa magari la forma è meno importante, però il fatto che chi scrive un romanzo gli dia un titolo, o una suddivisione in capitoli, è già indulgere ad una forma, c’è il caso eclatante dell’Ulisse di Joyce dove ogni capitolo ha una corrispondenza con un episodio dell’odissea, con una parte del corpo, e con uno stile letterario, secondo uno schema che è riportato in tutte le introduzioni al romanzo.
    Devo specificare che parlo come lettore, perché fondamentalmente sono un lettore appassionato di poesia ma anche di letteratura in generale,
    è vero che ogni tanto scrivo delle poesia, però tengo anche un orto senza pensare per questo di essere un contadino. Però non coltivo l’orto o scrivo qualche poesia per passare il tempo, ma per mangiare le verdure e per cercare di esprimere qualcosa come farebbe un poeta in senso proprio.
    Anch’io sono piuttosto freddo verso il futurismo, però alcune cose, come le tavole parolibere di Marinetti o queste pentagrammate, che si pongono tra il suono, la scrittura e la grafica mi sembrano interessanti, sono la poesia visiva in embrione.

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    1. grazie della lucida e articolata risposta, in calce alla quale s’impone un abbraccio fraterno da “contadinano” (è bello sapere che condividiamo lo stesso retroterra *colturale*, eh). e quale pianta preferisci, se posso osare? la mia è sicuramente il pomodoro: lo amo al punto di coltivarne ogni anno almeno 100 piante (ripartite tra decine di diverse varietà, dal ciliegino nero al giallo gigante).
      : ))
      scrivi: “fondamentalmente sono un lettore”. eh, anch’io. posso vivere senza scrivere (non dico che starei benissimo, ma “sopravvivrei”), mentre la lettura è come l’acqua per i pomodori: se nei mesi caldi resto a secco anche solo due giorni, prima chino le fronde a mo’ di salice piangente e infine muoio. in giro per il mondo (sia “internauto” che reale) noto invece che prevale in stragrande maggioranza il fenotipo opposto: tantissimi scrivono ma quasi nessuno legge. boh.
      scrivi: “il futurismo mi suggerisce il rapporto tra la soggettività e il grande oggettivo con cui essa confina”. capisco cosa intendi (è un concetto peraltro molto “leopardiano”, autore di cui amo la poesia e ancor più la prosa). tuttavia, a scanso di equivoci, per me “forma e sostanza” non incarnano un dualismo rigido, di tipo binario (logica antitetica che spesso e volentieri affascina il cervello umano e il pensiero religioso). esiste una fruttuosa interazione tra le due, ma anche un vitale rapporto gerarchico: la forma è *sottoposta* e *funzionale* alla sostanza, ovvero è lo strumento mediante il quale la sostanza viene “comunicata” ovvero è lo strumento che rende più o meno fruibile/spiazzante/efficace il messaggio. e quando ci si imbatte in una forma che “comunica” un messaggio, a ben guardare non è più una forma ma “una forma di sostanza”.
      : )
      ohi, sembra un gioco di parole (ma come spesso accade, non lo è)…
      scrivi: “quello che muta è appunto il confine con il mondo e con la storia (…), altrimenti significherebbe solamente rimestare un formulario narciso-psicologistico.” beh, forse anche no. secondo me siamo d’accordo e stiamo solo verbalizzando la stessa cosa da prospettive differenti. intendo, l’oggetto, qualunque esso sia, è un “non essere”, ovvero una sostanza priva di umanità: per “esistere” deve essere percepito/vissuto/interiorizzato. le scienza, i contesti storici e compagnia bella influenzano la società (piano intersoggettivo) e i singoli individui (piano soggettivo), ma, come ben dice Wittgenstein “persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi esistenziali non saranno ancora neppure stati sfiorati”. dunque, anche se, com’è evidente, “il confine esterno” muta, la “rappresentazione del mondo” (lo pseudo-ambiente del linguista cognitivo George Lakoff) non può che prendere corpo *comunque* all’interno del cervello umano. trattasi allora di un “rimestare” girando attorno a un “formulario narciso-psicologistico” sempre uguale a se stesso? no, perché non c’è un cervello uguale a un altro e non c’è una società (piano intersoggettivo) uguale a un’altra. d’altro canto non esisterà mai un cervello “completamente diverso” da un altro né una società “completamente diversa” dall’altra… l’importante è che il piano soggettivo non si avviti su se stesso (narcisismo poetico), ma che sia aperto ad uno scambio intersoggettivo (comunicazione), ovvero a uno scambio di *messaggi* (ed esempio, la “sostanza” artistica).
      scrivi: “La forma e la sostanza, ho l’impressione che nei grandi autori siano in equilibrio”. ecco, anche il concetto che qui esprimi è condivisibile, ma a mio sentire si presta al “fraintendimento solipsista dell’artista, che se la conta e se la canta sulla rivista” (letteraria, n.d.n) e che è una sorta di distorsione del rapporto gerarchico di cui scrivevo sopra. intendo, per massima chiarezza, preferirei formulare l’impressione in questo modo: “nei grandi autori la forma è particolarmente funzionale alla sostanza”, id est “nei grandi autori lo strumento è particolarmente adatto al fine perseguito”. e se il fine ultimo è quello di comunicare, è ovvio che uno strumento che *remi contro*, ovvero che “goda” a rendere il messaggio meno fruibile (e più elitario) è un non senso artistico. Joyce, ad esempio, spesso lo prenderei a calci nel sedere (con rispetto parlando) per come si butta via (tanto che a volte – scusa la bestemmia – mi coglie il dubbio che potrebbe essere l’autore più sopravvalutato del millennio). e anche i futuristi spesso e volentieri (ma non sempre ofcòrse, basti pensare a Palazzeschi), mi scate-nano tale reazione.
      : )
      insomma, con buona pace di Marinetti e soci, per il cervello umano non esiste alcuna “oggettività” (dinamica o naturalistica”). esistono, per contro, un universo soggettivo (romantico o meno) e un mondo *intersoggettivo*, territorio di caccia dalla statistica di popolazione e… dell’arte. nessuno nega che siano grandi le potenzialità di una parola che diventa “polisemica e allusiva, in grado di cogliere la vastità del reale”, ma d’altro canto, “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” (come diceva lo zio Ben di Peter Parker) e una parola fine a se stessa, che si afferma come “segno arbitrario, indipendente dalla realtà che rappresenta” moltiplica per mille il rischio che l’artista smarrisca il senso del messaggio nella *scomunicazione*. e, davvero, non se ne sente proprio il bisogno in un mondo dove l’incomunicabilità già detta legge incontrastata (vedasi il “famoso” nanaforisma numero 1)…
      scrivi: “per la prosa magari la forma è meno importante”. mmm… l’apparenza a volte inganna. anche perché se è vero che il cervello umano ama ascoltare “storie” (da cui la “presa” sul lettore di qualsiasi narrazione dove può immedesimarsi), dall’altro la lunghezza *impone* un’attenzione massima alla forma: tutti possiamo resistere qualche secondo in una posizione “scomoda” (poesia poco fruibile), ma quasi nessuno potrà resistere per ore (romanzo poco fruibile).
      scrivi: “la forma metrica come un modo per segnalare che non tutte le parole vanno bene, ma serve una concentrazione per trovare quella giusta”. la forma “metrica” in senso stretto potrebbe essere assimilabile ad una camicia di forza: decidere a priori che renda il messaggio più fruibile/efficace è illogico. la metrica è in parte “gioco di abilità” (celolunghismo del Poeta) e in parte “musica”. tutti sappiamo quanto la strofa di una canzone possa rimanerci in testa se *accompagnata* da un’efficace linea musicale, ma, parimenti, veniamo respinti dalle contorsioni metriche del drumming di George Hurley dei pur degnissimi Minutemen di “Double Nickels On The Dime”.
      insomma la forza dell’arte (ovvero del cervello umano) è grande e il grande artista potrebbe essere quello che riesce a “domarla” (se tiri troppo, la corda si spezza; se tiri troppo poco, non attiri nessuno… e in entrambi i casi tutto resta uguale a prima).
      grazie dei tanti spunti (e scusa i miei deliri, come al solito prolissi).
      : )

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