*
Congelamento funebre.
Terremoto rancido. Alba di sole opaco. Temperatura artica.
Carlo respira l’aria gelida con foga, una boccata dopo l’altra, e il freddo si riversa nelle cavità del corpo fino a cristallizzarlo assiderato. Pensa al vuoto nello spazio siderale dove potrebbe galleggiare senza peso andando alla deriva verso il nulla. Guarda la pistola e decide che è una mattina ideale per suicidarsi. Sospira, poi punta la pistola verso il container e spinge il beccuccio nella crepa tra finestra e muro. Preme il grilletto: il silicone s’incunea spernacchiando nell’anfratto.
– Vieni dentro che ti becchi un accidente! – strepita la moglie stampando l’alito sui vetri chiusi. I vetri filtrano la voce e lasciano vibrare solo un rimprovero ovattato.
Carlo lecca l’indice reso insensibile dal freddo scoprendolo gelato sulla lingua. Fragola e lampone. Poi fa scivolare lentamente il polpastrello ben bagnato sul verme di gelatina bianca per ottenere una fettuccia piallata. Pistacchio e stracciatella.
– Arrivo – bofonchia rauco più a se stesso che alla donna.
Prima di rientrare nel container, osserva in controluce il profilo delle case in cima alla collina: l’orlo nero del paese diroccato pare uno spasmo d’agonia. Pensa alla morte di suo padre e, senza soluzione di continuo, alle scalette in pietra consumata che portavano al parchetto della rocca. Poco più oltre, un gatto spelacchiato insegue una cartaccia sulla neve grigia, mista a fango.
Carlo si beve un ghigno amaro e immagina di telefonare a Dio. Il cellulare suona a vuoto per almeno una trentina di secondi, finché non parte la segreteria: “dopo il segnale acustico cantate una preghiera, se ho tempo sarete richiamati.” Carlo lascia che il silenzio scorra senza aprire bocca. Alle fine, con un bip che pare un urlo a squarciagola, la comunicazione cade nel vuoto. Sputa in terra. Punta la pistola contro il cielo e chiude un occhio come a prendere la mira. L’iPhone squilla: “numero privato”. Esita. Risponde.
– Pronto?
– Cazzo vuoi?
– Prego?
– No che non hai pregato, stronzo! Eppure il messaggio registrato era chiarissimo: cantate una preghiera… quindi fanculo. Click.
Carlo si stringe nelle spalle e fissa sconsolato l’iPhone farsi buio: Dio non è più lo stesso, dall’ultimo millennio in qua… comunque deve ammettere che in fondo Iddio ha ragione. E non perché è infallibile e perfetto, bensì perché oramai ci ha perdonato troppe volte: abbiamo rubato una mela del suo albero e non ci ha folgorato, è passato sopra al fatto che gli abbiamo crocefisso il figlio, ma ogni pazienza ha un limite! Non si può pretendere che non s’incazzi per come stiamo devastando il Creato, rete della Vita nonché “social di Dio”, per usare le parole di un Papa progressista ormai defunto.
Dopo la breve pausa di riflessione, Carlo rientra intirizzito e molto scosso nel container.
– Che hai? – chiede la moglie.
– Dio mi ha telefonato, poco fa.
Sara studia l’espressione sofferente del marito e conclude che non sta scherzando.
– O santo cielo! E’… è un miracolo! Siamo salvi… siamo salvi!
– Non so, non credo: era incazzato nero perché non ho cantato una preghiera. Mi ha messo giù.
La donna sente il freddo penetrarle prima il ventre, poi la testa fino ad incanalarsi nei bulbi piliferi di ogni singolo capello bianco.
– Ma tu… ma tu gli hai chiesto perdono, pietà? …gli hai detto che per quanto poco valga l’amore di una scimmia nuda, tu, io, n-noi lo amiamo – piange – e che… e che abbiamo tanto bisogno di… d-di sentirci amati da lui?!
– Non ho fatto in tempo.
La televisione sta trasmettendo un documentario naturalistico sull’accoppiamento delle aragoste. Come gli esseri umani, le aragoste fanno sesso nude e infatti prima di accoppiarsi si spogliano uscendo dal carapace, si accoppiano e poi rientrano nel guscio. Durante l’amplesso non possono provare piacere perché non possiedono un sistema nervoso centrale: resta dunque un mistero cosa le spinga a fare sesso. Carlo si lascia cadere al rallentatore sul divano, senza posare il silicone. Lentamente, la pistola gli si adagia sulla coscia. Sara sta ancora piangendo, ma si riscuote, si inginocchia e intona con voce rotta un Symbolum 77 da straziare il cuore.
Carlo sfoca lo sguardo e si scopre a pensare ai bambini vittime di madri e padri violenti che, per una sorta di sindrome di Stoccolma, non riescono a sfuggire al bisogno di sentirsi amati dai loro genitori: più vengono maltrattati e più cercano affetto, più sono denigrati e più cercano considerazione. Che delirio…
– Sara, per favore, tirati su e facciamo colazione.
La moglie continua a cantare.
– …nella tua parò-o-laaaa, io cammineròòòò… finché avrò respiro fino a quando tu vorraiiii….
Carlo rabbrividisce e guarda oltre i vetri del container: è ripreso a nevicare. Magra soddisfazione, ma almeno da qualche lustro è più difficile imporre politiche di austerità e di redistribuzione della ricchezza verso l’alto con la storia del riscaldamento globale. Si smarrisce lungo tale linea di pensiero finché Sara non conclude il canto liturgico e torna a preparare il caffelatte. Carlo osserva il corpo smunto della donna mentre fa sgorgare il latte liofilizzato da una tazza a forma di mammella.
– Probabilmente sto impazzendo.
– Credo anch’io.
– Tutti crediamo in qualcosa. Non c’è nulla di male.
– Oddio… chi sta parlando? Non so più se sono Carlo o sono Sara.
Tu sei Carlo e tu sei Sara.
– Ah, ok… grazie, io sono Carlo – ripete l’uomo sempre più fuori di testa – ecco, lo sai cosa pensavo? Dopo miliardi di anni, è lecito perdere colpi. Mio bisnonno è arrivato a novant’anni, ma a memoria stava messo male. Anch’io che sono ben più giovane, qualche secondo fa non ricordavo se ero io.
– Non capisco… che vuoi dire?
– Dio soffre per la distruzione del Tempio e per l’esilio del suo popolo… Dio soffre per il male nel mondo e per i nostri peccati perché ama gli esseri umani… è… è impossibile che non soffra almeno un po’ di Alzheimer!
Sara rimprovera il marito con sguardo tra l’obliquo e il velato.
– Non bestemmiare.
– E chi bestemmia! Sono in pensiero per Lui! Dio ha creato l’universo miliardi di anni fa e la cacciata di Adamo dal paradiso terrestre si perde nella notte dei tempi. Con tutto il lavoro che Dio è costretto a fare in giro per il cosmo, forse non si ricorda più in che spazio-tempo ci ha creati: io già non mi ricordo cosa ho fatto l’anno scorso!
La televisione sta trasmettendo una pubblicità di assorbenti interni. Di scatto, Sara agguanta il telecomando e la spegne.
– Tu non stai bene, Carlo.
– Forse non è del tutto sicuro di averci creato, magari ci ha solo sognato e allora fa scorrere il tempo a ritroso per controllare se gli esseri umani esistano davvero. Ecco… gli basterebbe trovare anche solo una minima prova della nostra esistenza e riuscirebbe a credere in noi! Magari è da un’eternità che cerca, ma non è mica facile trovarla…
– Sei impazzito, Carlo, o che?
– Ma non capisci?! Viviamo su un granello di polvere disperso nello spazio infinito e sulla scala dei tempi cosmici esistiamo solo per una frazione di secondo. Come può ritrovarci? Servirebbe davvero una botta di culo!
Per tutta risposta, Sara assesta una botta in testa al marito con la scatola dei cornfléics. Ne scaturisce un suono cupo, quasi spettrale che rimbomba più e più volte nel container. Restano entrambi in silenzio, immaginando il suono delle parole scritte e dei pensieri che si fanno carne.
– Hai ragione – concede l’uomo – sto dicendo cose senza senso. Chissà se abbiamo ancora una speranza.
– Servirebbe qualcosa che convinca Dio che possiamo ancora rimediare, che siamo degni del Suo amore e della Sua misericordia. Ci vorrebbe un gesto eclatante, un nuovo inizio…
– Già… ma quale?
Carlo pensa che se avessero dei figli, potrebbero crocefiggerli e postare le immagini su Féisbuc seguendo l’esempio di Abramo quando offrì il suo figlio Isacco in sacrificio a Dio. Niente da fare… deve inventarsi qualche altro rituale di riconciliazione. Ma cosa? Mmmm… in mancanza di figli, s’immolerà egli stesso e affinché ne scaturisca un rito il più possibile eclatante, si suiciderà in diretta con la webcam! Computer, connessione, apre Feisbùc live, si punta la pistola di silicone alla tempia e spara. Un verme di sostanza bianca gli si appiccica ai capelli. Sara lo guarda interdetta e dopo qualche attimo si porta le mani al volto per singhiozzare un pianto disperato.
Non funziona.
Oppure…
Bingo!
Carlo si alza dalla poltrona e ad ampie falcate raggiunge l’uscio del container. Lo apre e sguscia fuori tuffandosi nell’aria gelida della tormenta: ha avuto un’intuizione originale. Muove alcuni passi verso uno spiazzo libero da piante e scruta l’orizzonte. Sputa in terra. Punta la pistola contro il cielo e chiude un occhio come a prendere la mira. Strano: ha un improvviso dejà vu, come se avesse già vissuto quell’istante tante e tante volte. L’eco di meditazioni mai tradottesi in azioni.
Ma adesso…
Adesso sa come possiamo rimediare.
Calcola distanza, curva balistica e correnti ascensionali. Aggiusta il tiro controllando la tensione: ogni muscolo è una molla pronta a scattare.
Preme il grilletto della sua pistola ed accompagna il gesto con uno slancio vigoroso di tutto l’arto superiore: il silicone guizza verso il cielo. Carlo stringe i denti e spinge sul grilletto ancora, ancora e ancora senza curarsi delle dita congelate, senza fermarsi a riposare fino a che gli resta un minimo di fiato.
Passa un minuto. Due minuti.
Passa un quarto d’ora e non si ferma. Ancora! Ancora!
Mezz’ora dopo ha chiuso tutto il buco dell’ozono.
*
*
(in caso di cose da dire all’autore: malosmannaja@libero.it)
Un bel racconto brillante, mi ricorda un po’ quelli di Woody Allen che leggevo decenni fa su Eureka. Terremotati nei container, o precari di un futuro non lontano vittime del cambiamento climatico, col problema di chiudere le crepe (simboliche) del tutto, aspettando una specie di Godot-idolo che funziona con la logica del do ut des. Il freddo è un segnale di privazione, del calore ma anche di tutto il resto. Oltre un certo limite di freddo tutti non credono più in qualcosa. Mi aspettavo che la pistola al silicone colpisse dio nell’occhio, e che scendesse giù incavolato. Invece il finale sembra dire che ognuno deve chiudersi da solo i propri buchi, e che chi fa da sé fa per tre.
La mia verdura totem è la melanzana, in subordine il pomodoro, del quale quest’anno ho provato a coltivare il Sun Black, una varietà nera, sembra sia l’unica che contiene antiossidanti. Però le melanzane negli ultimi anni sono state una grossa delusione.
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Dal suici-dio al di(t)o gelato, alla telefonata direttamente a dio – vecchio burbero incazzato, immaginato a sua somiglianza. E non sorprende che Sara gli creda né le aragoste alla tv, rintanate anche loro nel loro container. Da scimmie passeremo a essere crostacei per difenderci dal gelo. Spiazzante e toccante come il migliore malos. Carlo torna spesso nella tua scrittura… tratto da qualcosa già scritto, parte di un lavoro in divenire o solo un racconto? Thanks!
P.S. Vi invidio l’orto, rimane un mio sogno nel cassetto per il momento. Le melanzane al primo posto anche per me, adoro comunque anche i pomodori.
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@Giancarlo: grazie delle parole (nonché dei lusinganti echi Woodyani). eh… non solo il mondo attorno a noi è pieno di buchi e di crepe, ma i nostri stessi pensieri fatiscenti ne sono pieni. veniamo addirittura al mondo uscendo da una crepa!!! e se, come si narra, prima o poi creperemo tutti, spero che nell’aldilà ci siano fabbriche di silicone. ps: la melanzana è la mia seconda pianta preferita, ma in famiglia piace solo a me – aaargh! – quindi sòffregato : ))) un abbraccio pieno di calore.
@Abele: grazie, troppo buono. dici bene: sopravvivere al riparo di un “container” – fisico o mentale, reale o virtuale – è tutto ciò che ci rimane. ormai usciamo allo scoperto solo per fredda necessità (id est, fare la spesa) e il latte sgorga liofilizzato da una tazza a forma di mammella… Carlo è un nome che ricorre in più racconti (tipo questo): mi piace perché può incunearsi da tergo nelle parole, tipo toccarlo, addomesticarlo, dimenticarlo, identificarlo, pubblicarlo, supplicarlo, mortificarlo, giudicarlo e così via…
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Ciao Malos e a tutti i presenti, ogni tanto passo qui al Neobar a ripararmi dal freddo;-). Bella questa lucida agonia o follia di Carlo che saltando da una disperazione all’altra e appoggiato in pieno dalla moglie forse più folle e disperata di lui, rimane comunque siliconato al desiderio di una salvezza. Direi in cerca di un finale appagante che riscaldi più del misero container amorevolmente riparato, che nutra più di un latte liofilizzato e ridipinga i resti del paese ormai distrutto, che in qualche modo chiuda le ferite della mente, e il suicidio con la pistola al silicone è emblematico in tal senso. E quindi Dio, che è stato creato a nostra immagine e somiglianza, non può che incarnare il mejo del mejo e l’unica speranza, anche se qui somiglia più agli Dei dell’olimpo. E il coinvolgimento è dato proprio dalle idee spiazzanti e bizzarre di Carlo che individuato il problema e il salvatore in un corpo unico, la freddezza di Dio, tenta comunque di uscire dalla crepa posta fra la sopravvivenza e l’essere già morti dentro…il container. Direi Malos che questi tuoi racconti brevi si leggono d’un fiato e lasciano il segno. Qui navigando sull’onda dell’ironia si approda in amare consapevolezze e in scorci di litorali metafisici, immedesimandosi nei gesti eroici di Carlo che non vuole salvare solo se stesso ma tutta l’umanità.
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commento emozionante e commovente, grazie di cuore.
eh… a parte che malos si scrive minuscolo (grrr…), direi che siamo in più che buona sintonia.
: )))
un abbraccio stretto stretto che magari non ci salverà, ma almeno un po’ di calore umano…
: )
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