Terra matta, cultura militarista e migranti.

rabito

Qualche giorno fa ho finito di leggere “Terra matta” di Vincenzo Rabito, vero miracolo letterario, come ha scritto giustamente Andrea Camilleri. Drammatico, tragico, divertente, epico, spassoso, tutto quanto può fare di un romanzo un’epopea letteraria è presente in questo libro. Lettura consigliatissima, davvero sorprendente e coinvolgente. Un riuscitissimo esempio di come la vita di ognuno di noi, eroe o antieroe, popolano o borghese, nobile o re, è sempre materiale degno di capolavoro.

Ma le pagine che più mi hanno colpito di questa autobiografia scritta in dialetto siciliano da una persona semi-analfabeta, forse anche in relazione agli eventi di attualità di questi mesi legati ai migranti, sono state quelle che narrano la vita militare del protagonista durante la prima guerra mondiale. In queste pagine vengono narrate tutte le peripezie e le sofferenze patite da un Vincenzo Rabito appena sedicenne, prelevato a forza dai carabinieri durante una cena di festa in famiglia, nella sua casa di Chiaramonte Gulfi, oggi in provincia di Ragusa, poi sballottato per le caserme di Catania, Siracusa, Palermo, Roma, Firenze e Bologna, per giungere infine al fronte, prima sull’altopiano di Asiago, poi sul Piave e infine in Slovenia, a sedare le rivolte popolari intorno a Gorizia dopo la fine della guerra. Le condizioni di vita dei soldati descritte sono pessime, ammassati e piantonati dentro una chiesa sconsacrata a Siracusa con pochissimo spazio a disposizione per dormire e vivere, trasportati in lungo e in largo per l’Italia dentro vagoni simili a quelli destinati agli ebrei deportati dai nazisti, costretti a spostarsi con indosso equipaggiamenti pesanti decine e decine di chili. Le marce forzate, i lavori di costruzione delle trincee lunghi settimane con turni di dodici ore al giorno, le settimane passate a seppellire morti, l’occupazione delle postazioni e le avanzate sotto il fuoco nemico che si trasformavano in veri e propri massacri in cui carne, sangue, terra e metallo si mescolavano in poltiglie informi e rivoltanti.

Durante la narrazione lo sgomento del protagonista è massimo, il giudizio negativo verso la patria anche, l’accettazione del destino di soldato, però, è ineluttabile. Ne viene fuori il ritratto comprensibilissimo di un uomo, e giocoforza di tanti altri come lui, profondamente forgiato dalla vita militare. Uomini trattati quasi come bestie, ridotti all’obbedienza e all’esecuzione di ordini, costretti all’abbrutimento in situazioni estreme che loro non hanno voluto, annientati nell’esercizio della loro libera e autonoma volontà in piena corrispondenza tra pensiero e azione, ricompensati tangibilmente solo dopo aver portato a termine i loro compiti e dopo essere sopravvissuti.

Uomini formati in questo modo vengono abituati alla sopportazione ma anche al lamento, quindi a un pessimismo sulla vita umana strisciante, che man mano cresce fino al nutrimento graduale di un rancore costante, il quale, non potendo essere sfogato, dimentica il suo vero bersaglio e viene interiorizzato al punto da diventare parte fondante della loro visione del mondo.

Ne deriva la formazione di larghe fasce di popolazione, appartenenti soprattutto ai ceti popolari, distratte, superficiali, senza volontà e fermezza necessarie alla pazienza, incapaci de facto di affrontare le difficoltà e i problemi quotidiani nel modo migliore, incapaci di formarsi opinioni autonome “sistemiche” intorno a qualsiasi tipo di questione le investa.

Ma il dramma si palesa in tutta la sua gravità se consideriamo che questa “estensione” della vita militare a quella quotidiana ha la sua diffusione nettamente prevalente tra le persone di sesso maschile, cioè tra quegli individui a cui, nel pieno della forza fisica e nel pieno della maturità, spetterà il compito di prendere le decisioni per tutti gli altri. E proprio il ruolo dominante del “maschio” nella nostra società, porta alla diffusione pervasiva di questa visione del mondo in tutto il nostro tessuto sociale, con esigue sacche di “resistenza”.

La vita di Vincenzo Rabito descritta in questo libro, seppur piena di soddisfazioni e con lieto fine, è stata difficile, piena di lavoro, imposizioni, sfruttamento e fatica, e la domanda che credo tutti dovremmo farci è se tutta questa sofferenza inflitta da una più o meno strisciante mitologia maschilista e militarista abbia avuto davvero un senso. Vincenzo Rabito, e tanti altri come lui, avrebbero avuto una vita migliore senza guerra e sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Io credo di sì! Questo libro secondo me può insegnarci davvero molto in questo senso, anche re-immaginando la vita di chi ci ha preceduto in relazione a questa, così descritta in modo così coinvolgente e avvincente.

L’imperativo che questo libro ribadisce, dunque, è il continuare a proseguire la strada dell’emancipazione dell’uomo comune dalla falsa mitologia militarista e dalla tradizionale cultura prevalentemente maschilista su cui ci siamo costruiti finora.

Mi è risultato davvero facile, infine, fare un parallelo tra la vita di Rabito, incastrata nelle ruote dentate di meccanismi più grandi di lui, e la vita di chi, per colpa di decisioni scellerate provenienti dall’alto, viene costretto a sostare su navi tutt’altro che comode davanti a porti i quali rappresentano la fine o la fine di una parte del loro viaggio, porti in cui troverebbero tutte le prestazioni di cura e assistenza umana e sanitaria di cui necessitano. E chi viene lasciato sulle navi per più tempo sono proprio i maschi, giudicati potenzialmente pericolosi. Anche in questo contesto, quindi, cadono sul capo degli uomini decisioni piovute dall’alto, spade di Damocle impossibili da evitare, nel momento in cui si palesano. Io non vedo differenze particolari tra una chiamata al servizio militare in tempo di guerra, una deportazione e il caso dei migranti bloccati in mare. Le caserme, in fin dei conti, non sono così diverse dai lager, così come vivere per mesi su una nave in mezzo al mare, stretti insieme a tanti propri simili con bagni comuni e impossibilitati a lavarsi, non è poi tanto diverso dal condividere una baracca in un campo di concentramento. Il meccanismo psichico che prenderà a svilupparsi nella mente di ogni singolo migrante non sarà diverso da quello di Vincenzo Rabito, meccanismo che in questo caso sarà giocoforza aggravato dalle tante privazioni subite da ogni migrante sia nel proprio paese di origine sia durante il viaggio, per non parlare delle immani sofferenze patite in un naufragio scampato o in un lager (torniamo sempre a caserme e campi di concentramento) libico.

Ecco perché, a mio parere, occorre bloccare qualsiasi decisione coercitiva non debitamente studiata e accettata da entrambe le parti. Il meccanismo dell’”io comando, tu obbedisci” va abolito, va abolito sia nella vita militare sia nei contesti simili.

La cultura militarista dell’essere obbligati da un capo a stare male, a fare cose indicibili per fini vagamente accennati o distanti o false mitologie va eradicata dalle nostre vite. Rendere degli uomini meri esecutori di ordini, senza nulla in cambio preventivamente stabilito o pienamente sancito da un contratto, è schiavitù.

Faccia il soldato solo chi ne è pienamente convinto e si entri nella vita degli altri a dare ordini e ad elargire punizioni solo in caso di gravi reati commessi, non per condizioni di vita (sesso, etnia, età, cittadinanza, ceto sociale …), ne guadagneremo tutti.

@Fernando Della Posta

08 dicembre 2019


3 risposte a "Terra matta, cultura militarista e migranti."

  1. Grazie Fernando. Non ho ancora letto il libro di Vincenzo Rabito. Ricordavo un documentario basato sui suoi diari, l’ho cercato su Youtube e ho invece trovato un adattamento teatrale di Stefano Panzeri, che propongo, non so quanto fedele al libro (apporta molti tagli) ma l’ho trovato molto interessante come anche quello che Panzeri dice alla fine dello spettacolo (fa riferimento alla migrazione e a quella italiana nel passato):

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  2. orpolà… Rabito e Terramatta tra i Poeti??!?!
    : )))
    mi “famorire” questa cosa… Vincenzo Rabito è un uomo vero (nel senso più “umano” e meno “machista” del termine), è uno sporco grumo di carne cruda che s’arrabatta, suda, bestemmia, ruba, ride, stupra, inganna, mancia, va a “putane”, fa ore di straordenario per fare solde e far studiare ai figlie sperando in un buono avenire… il suo è un urlo popolare, lancinante, sguaiato, generoso, schietto, in qualche modo “pasoliniano” e lontano anni luce dal “buonismo” da salotto dell’intellettuale di asinistra.

    ergo, se da un lato ringrazio sentitamente Francesco che l’ha riproposto qui, dall’altro mi scappa un “ossignur!” divertito per come si possa tirarlo per la giacca facendone una sorta di testimonial della tratta di immigrati clandestini, tanto cara a scafisti e liberisti. davvero ho riso di gusto e, a giudicare da come risuona la sua voce tra le righe, avrà riso nella tomba pure nonno Vincenzo!
    quindi ok: lunga vita al globalismo schiavista e all’inferno tutti i fascisti senza quore che si ostinano a voler bloccare migranti su navi “tutt’altro che comode” invece di rendersi conto che accoglierli risolve alla radice ogni problema. ok, ma basta: lo spazio nell’universo medio a reti unificate è già più che sufficiente! : )) Terramatta non merita di essere strumentalizzato in questo modo…

    nello specifico del romanzo autobiografico di Vincenzo Rabito, rifletto e procedo – vista l’ora – per pensieri sparsi:

    – nonno Vincenzo ha scritto il suo illeggibile scritto nella speranza di essere pubblicato e diventare un best-seller? assolutissimamente no. dunque è un vero e proprio marziano nel panorama letterario narcisista contemporaneo

    – quanto è profondamente vera l’intuizione senile di nonno Vincenzo che mette a nudo la quasi coincidenza della vita con la scrittura (e pensare che non avrà mai neppure sentito nominare Borges)!!

    – cosa ha fatto di uno strazio linguistico privo di appeal commerciale di 1027 pagine un best seller di 411 pagine? beh, direi che Einaudi, Espresso e tutta la promozione a contorno (giustificata o meno, non è questo il punto) hanno dimostrato un potere assoluto sul mercato letterario, come già per il Faletti di “Io uccido”

    – “Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente da racontare” scrive nonno Vincenzo e a me vengono in mente le tre cose fondamentali che *possono* fare la fortuna di un libro: “le storie, le storie, le storie”. perché, “digiamogelo”, il problema della narrativa degli ultimi decenni è che ha davvero poco da raccontare (nonno Vincenzo, invece, ne ha passate più di Walter White!)

    – “Avoglia di faremebello e di amparareme il tratore, ma sempre mi trovocercanto lavoro…” il lavoro, pietra angolare su cui è fondata la costituzione, resta il principale motore della nostra vita. quando tale diritto è calpestato, tutta la nostra vita viene sconvolta (luoghi, affetti) costringendoci a cercar fortuna in altre regioni o all’estero. buffo no?

    – quando un anziano ti racconta la sua vita è come entrare in casa sua. ma appena varcato l’uscio può accadere di scoprirti a casa tua. ebbene sì, la storia (e l’amorale) magari non sarà del tutto sempre quella, ma in larga si ripete… nella polvere depositatasi su quadri e soprammobili s’incarna l’accettazione di un destino oscuro, che per noi è ancora sofferenza tutta da vivere.

    – nonno Vincenzo è un grande italiano nel senso migliore del termine: un uomo di sostanza, pratico, abituato a lottare e piuttosto cinico. come tale non può essere un uomo di fede religiosa (Dio viene invocato più come fortuna che altro) né politca (in cuor suo sarà pure un socialista, ma la “fede politica” è un lusso da intellettuale che il popolo sa di non potersi permettere).

    un abbraccio ai miei immigrazionisti preferiti
    : )

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