“I testi non si presentano come esemplari ma come individui” dice Peter Szondi citato da Pier Vincenzo Mengaldo nell’introduzione all’antologia “Poeti Italiani del Novecento.”
Pensando globalmente alla poesia di Simone Cocco, autore per nulla assiduo nel percorrere le rotte degli ambienti letterari, è così che concepisco ogni singolo “pezzo” della sua nutrita produzione ancora del tutto inedita, se si esclude un primo luminoso e-book (che conservo gelosamente) concepito a cura della redazione del sito “Lunegitane”. Testi “individui” che sanno dimostrarsi di volta in volta, appoggiati all’io narrante che in apparenza strizza strutturalmente l’occhio a una certa poetica “beat”, sincopata, colloquiale. Non confondiamoci però, se tributo c’è è qualcosa di connaturato e nostalgico, il riflesso di un certo periodo inneggiante a valori cari all’autore come libertà, anarchismo, riscoperta dell’interiorità individuale del tipo hipster, ora calata nella jungla di un quotidiano XXI secolo. Più che un adeguamento a una conformazione stilistica, la naturale inclinazione a un certo spirito. Vero è che tutta la produzione dell’autore verte su un personalissimo mood esistenziale, punto d’onore dello sganciarsi da ogni canone precostituito e che per assunto, condivide con il periodo di Ginsberg & C. la potente tensione verso un ribelle individualismo. Di volta in volta, di testo in testo, il poeta porta in scena il suo mondo interiore (comprensivo di personaggi e situazioni che lo popolano) permeato di soluzioni e sovvertimenti esplosivi, capaci di trarre in salvo da una rovinosa omologazione di pensiero e sentimento. Un velo di leggera malinconia è quel comune denominatore depositato su ogni pagina come primario filtro da cui passano le immagini, che non per questo restano ostaggio di un sortilegio smorzante, ammantate piuttosto fluiscono in un climax che sa rendersi noto, sa entrare morbidamente in circolo, vicino al lettore. (Doris Emilia Bragagnini)
Come ogni estate aspetta solo un’altra estate.
Scappa un’estate
Dal balcone di un domani
Con vista di ricordo
Sul quando d’ora
Di questa vita.
Un’estate di parole da cantare
E di note che versarono da bere, gentili,
A una stella che scrisse: “mi vedi, son qui”, alle 4 del mattino.
C’eri anche tu.
Anche se non lo sapevi.
Non lo sapevi,
Dato che la contemporaneità dei sogni
Raramente s’accorge
Di due cuori divisi dalle troppe “utili & urgenti” attualità.
E ognuno è, a voler esser generosi,
Un uno in attesa
Di qualcosa che non c’è:
L’altro, quasi sempre.
La matematica del pensiero falla.
Somma i momenti, non riuscendo a prenderli per mano.
È così che scappa, l’amore.
Tra conti precisi e sguardi distratti.
È così, che si consuma l’idea dell’io che ambì a darsi del Noi:
Nel desiderar e cercarsi, fuori.
Come se fuori ci fosse sangue.
Come se fuori ci fosse tempo.
Come se fuori ci fosse amore.
E si va, fuori.
E dentro, ricama ben poco di bello, ben poco di nuovo,
L’assetto di te o me, in difesa di sé.
Basterebbe un’altalena, penso,
O un sorriso improvviso,
A far dir: non c’è davvero niente da dire,
Alle voci truccate d’impertinente mancanza.
Che le bocche non ne sanno nulla,
Della magia
Del cielo
E dell’abbraccio dei nostri occhi chiusi in volo.
Ma tu, abbracciami
E non guardare giù.
Basterebbe non fingere, di vivere.
Ma vivere.
Tutte le scadenze, scadute.
Tutte le voglie, perdonate in partenza.
Tutti i perdoni scritti a mano,
Su un diario senza date e senza firme,
Come a non tornarci più.
Come se andare, fosse proprio qui.
Come se qui, fossi proprio tu.
Come se tu
Fossi un’altra estate.
Ed io, per te.
Come ogni estate aspetta
Solo un’altra Estate.
*
Diritto d’opinione, notizie, capitane, leghe, stelle, pulci & mi fai schifo e ti cancello.
Diritto d’opinione
E dover di pensiero
Viaggiano insieme.
Ah si?
Si, quanto una pulce
Sul dorso di una stella:
La pulce opina a vanvera sul mai perfetto cielo a venire, protestando di qua e di là.
La stella studia il buio, chiedendo lumi al suo silenzio. Brucia & suda & cerca, in dignità.
Rappresentazione di bontà
E sete di giustizia
Differiscono per opposte necessità di cuor pensiero, credo:
La prima, usa il sentire per urgenza di dirsi in fretta, “giusta”.
La seconda sente, smuove, rischia, fa, per darsi intera.
Vi sono infatti, gesti “buoni” (prendi le opinioni) che costano appena
Un automatismo in uscita da gita da niente, e sono tanti & rumorosi.
Altri, che sanno di Bellezza che Deve, a qualsiasi costo, e son pochi e spesso ben nascosti.
Dunque, m’invito fuori
Dal quotidiano sindacare su ciò che arrivi a pioggia lava di vulcano, in urgenza da bandiera.
E provo a pensare che, prima di scucirmi un velocissimo: ecco come la penso “io”,
Prima, appunto, dovrei imparare a pensare, che l’Io non c’è, nei luoghi d’ansia dell’ “io”.
La bocca o le dita sui tasti, fanno in fretta a dirsi. Basta un ordine di pancia.
Basta correr dietro ad ogni notizia, dettata dal clamor dell’intestino a disco orario.
Così mi impegno sempre più, a dedicare alle notizie lo sguardo corto dei miei muti occhiali
E lascio che i miei occhi vedano, s’accorgano, del ben più in là del vetro d’uno schermo.
Le chiappe da notizia hanno movenze per riflesso, da corse d’esagitate attualità.
Scadono come nulla: l’attualità non ha niente a che vedere con l’essere presenti, mai.
Così come la conoscenza del “mondo”, niente ha da spartire col mondano.
Mi obbligo a star fuori, ma son parecchio scemo e non sempre, purtroppo, ci riesco.
Se mi dici “capitano”, comunque, penso a Whitman.
E manco sotto tortura, aggiungerò una a per scoppiettio di moda, alla parola.
La parola è importante. Non è affatto il “dire”. Non è ripetere a caso. È suono studio di pensiero.
Così come le note di Chopin: o pensi davvero che componesse con il solo dir delle sue dita?
Se mi dici ragion di stato, comunque, penso a un participio passato.
Se mi chiedi cosa ne penso degli uomini di colore, ti cago addosso due contro domande:
Esistono pensieri sul colore epidermico? E da quando?
Esistono colori o pensieri – per quanto attiene l’uomo – sul colore dei pensieri, semmai.
Finiscila. Finiscila. Finiscila.
Allo stadio, se vuoi, andiamo a vedere un concerto. O una partita di rugby.
Non vengo a far tifo pro o contro, per urgenza di complicità da appetiti esteriori.
Non voglio vivere in odor di sensibilità da argomento indotto, da te, da me e da nessuno.
Se mi dici scrittore, penso a Dostoevskij, a Bulgakov, a Baudelaire.
A quella rara gente che ha scritto oltre il divino, su ciò che ha visto, perso, morso, pagato.
Artisti, Pensieri: non gente da notizia con la bocca piena di posizioni, o apparizioni, da vendere.
Di Saviano, parlane con gli amanti dell’opinione, non con chi ami la letteratura. Per favore.
La bellezza è verità di roba vissuta, non simulata. Ecco, cosa spero di cercar d’imparare.
Se mi dici “lega”, penso alla ghisa. O all’acciaio. O alle leghe sotto i mari, o al mitico Jules. Salvini, lo regalo volentieri a te.
Se infine mi dici, a labbra di dolore: “come fai, a non avere un’opinione su qualcosa che riguardi tutti noi ?”.
Ti chiedo: tutti noi, chi? Noi, inteso come le nostre grandiose e coraggiose o -pi- nio – Ni ?!
Mi ci annoio la vista, con questo “tuo” umanissimo noi.
Anzi, sii gentile:
Dammi del Voi.
O meglio,
Del Mai,
Se puoi.
“Mi fai Schifo, ti cancello”.
Bene, è già qualcosa di più umano e meno da notizia, questo.
Più Vero. Dunque, pure un po’ più “buono”.
*
Lo spaventapasseri.
Mi spaventano i corvi,
Con quei versi da film di paura.
I passeri no, anche se più di una volta
È capitato che, uno o due di loro,
Si approfittassero della mia calma ferma
Per beccarmi il cappello.
L’estate qui nel campo è decisamente biancogialla, di giorno
E non è che io mi diverta tanto.
Però è bello, la sera,
Sentir le voci dei bambini, dalla casa laggiù
Rincorrere il vento, a colpi di mani felici
Finché, un tempo di basta, esce fuori e grida: è ora di cena.
Una nuova banda di formiche, ieri
Mi ha scalato tutto, dal piede conficcato nel terreno
Fino a su, per poi giocare – di solletico e strani giri indagatori –
Con gli occhi di pezza che ho, anche se solo per figura.
Perché io non vedo, sapete.
Però: sento tutto.
Quando di notte, attorno al campo
Ogni rumore chiude gli occhi, sento il buio,
Interrotto qua e là da qualche stella.
Ho sempre amato le stelle:
Così lontane, e impegnate a fare nulla con una certa puntuale eleganza,
Sono vuoti di silenzio disposti a riempirsi, a cui sento di poter somigliare. Sì.
Ad agosto, il giallo bianco comincia a stingere
E allora i fulmini prendono coraggio.
Li sento giocare a mosca elettrica con i tuoni:
Qualche volta, vince un fulmine.
Qualche altra, vince un tuono.
A volte pareggiano, o così dice l’acqua temporale, che subito vien giù.
La cosa che più mi piace,
Del mio mestiere di Spaventapasseri,
È che ho un sacco di tempo per pensare.
Pensare a me, pensare a voi,
Pensare ai pensieri dei passeri, del cielo e delle rondini
E a come tutta l’erba qui, buona o cattiva che sia, serva comunque a qualcosa.
Un giorno non sarebbe male, immagino,
Scendere da questa croce di legno di cui son fatto.
Levarmi il cappello e, che so,
Andar da qualche parte, ad anima fuor di divisa.
Come uno qualunque, un uomo qualunque, tra voi.
E bere un cocktail, dire cose, ridere, stancarmi, dormire. Cose così.
Un giorno, in un’altra vita, magari ne avrò occasione.
Ma non è che voglia rimpiangere
Un qualche futuro, beninteso.
Per quelli come me, il futuro d’altro canto
È un sogno sincero: niente che si debba avverare.
Niente per cui dover – dal passato – correggere, aggiustare o scordare.
Io sto così: tra il cielo, la terra, l’io, e il sempre o il nulla,
Non ho necessità di trovare agganci o risposte.
Non ho aggiunte da imparare, per amore
O sottrazioni da disinnescare, per non amore.
Non sommo niente, e a nulla chiedo un segno doveroso d’uguale.
Non cerco, non credo, non giudico, non spero. Tutto, tutto, va proprio bene com’è.
Sono uno spaventapasseri.
Ho un cappello in testa
E un’altra estate di suoni e di campo
Pronta a cantarmi ancora dentro.
Ho occhi di pezza e dunque, non vedo.
Ma sento tutto. Vi sento.
E questo è quanto.
***
dall’EBOOK: “La verità sull’amore era sempre un sacco di cose”
Un poeta non è una poesia
Quando cominciò a sentirsi
Come un sogno in estate
Nel cuore di un morto
Prese a contare i tramonti
Come le stelle, il buio:
Senza troppa speranza
Di farne mai parte.
Sapeva che un giorno come un altro
Si sarebbe risvegliato
Con un seme di gioia
Tra le dita.
Avrebbe saputo, quel giorno
Come darsi nuova acqua,
Nuova terra,
Nuova luce.
Ma quel giorno, per ora
Sembrava non dovesse mai
Arrivare.
Il giorno di adesso era invece
Tanti giorni senza occhi.
Tante ore senza pancia.
Tanti istanti di sangue macchiato
Di nessun colore.
Fosse stato un dottore
Avrebbe usato contro sé
Parole lame precise e senza sapore, come:
Depressione.
Ma era soltanto un poeta
E dunque non gli restava
Che continuare a mettere insieme
Parole sull’orlo
Dell’urlo.
E andare a capo.
Fosse stato un demonio
Avrebbe pregato il buon dio
Porgendo un altro cielo
Di malefatte pentite
Con la lingua pronta al perdono (e perdonami & amen).
Ma era soltanto un poeta
E al dio degli uomini
Avrebbe preferito sempre
Il dio dei brividi
E della mai finita bellezza.
Fosse stato una Poesia
Avrebbe smesso di cercare
Provare a capire
O aspettare.
Sarebbe stato il foglio che la vince sull’idea dell’anima.
Il suono che piega il significato.
Il ricordo mai nostalgico
Che rende vecchio il presente.
L’uomo che resiste bambino.
Senza più colpa,
Miserie
O sensi di.
testo tratto dall’ebook: “La verità sull’amore era sempre un sacco di cose”
ebook scaricabile QUI
Doriiiiiiiiiiiisemiliettaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
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benvenuto a neobar Simone! 🙂
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