ché non diventi mercanzia
né attiri corvi al pasto della pietà.
Il passo di questo libro è caratterizzato da una statura eretta, conscia, capace di verità dolorose a cui non è chiesta alcuna pietà. E’ un libro attraversato da parte a parte da una insufficienza – l’insufficienza di se stessi nei confronti della vita. Accettare le proprie penurie senza chiederne indulgenza, senza occultare la propria responsabilità. E’ quindi necessario un distacco – la separazione avviene attraverso un sé lucido, quasi crudele, necessario a guardare a fondo e a non concedersi sconti dopo che si è largamente appurato che Fa male ogni filo d’erba che sale dalla terra.
C’è come una penitenza da scontare attraverso la confessione di un sé mancante, inadeguato, sterile che dà conferma – quasi fosse una sorpresa – che è di tutti l’essere imperfetti Non lo sapevo/ma avevo come tutti/il mio punto di rottura. Un dolore – quello dell’essere nati – che va battuto palmo a palmo a stanarne ogni debolezza. L’accusata è carnefice e vittima stessa.
Una mancata filiazione della luce fa sì che sia il suo contrario a prenderne il posto e a mostrare quanto ogni cosa sia difetto e minaccia – Non c’è nulla che si possa dare senza pericolo. E così, inutile dar credito alla luce che non offre che afflizione, meglio guardare bene dal buio di sé dove esiste la possibilità di essere nulla e silenzio. La luce diventa il nemico da additare come responsabile dell’illusione.
Da questo buio, appena prima dell’esecuzione del nascere/Io vedo ciò che il chiaro nasconde – E sempre lei, la luce nemica, diventa ostacolo alla visione della realtà, quasi che la luce fosse un edulcorante, un barbaglio illusorio. La vita è un pericolo permanente; la luce ci mette al mondo e non perdona la tagliola dell’esistere. Forse solo il buio offre riparo.
Desiderio di una rinascita bambina dove ogni cosa è ancora tutta da fare o dove poter riordinare ciò che malamente fatto dal corpo limitato e spento.
Desiderio di una perfezione inesistente e perciò nessun desiderio.
– Esprimi un desiderio.
– Vorrei riuscire nella decreazione
più che nella creazione.
Saper demolire con grazia
ciò che mi sembra d’aver scritto
e vissuto
senza.
Un rinfacciare al proprio corpo di non essere insorto, di aver dato credito a una perfezione immaginaria, di averla pretesa e assunta a compito irraggiunto e irraggiungibile. A questo punto non resta che farne ammenda negando l’adeguatezza di una *piccola infanta* senza gusto.
Ma, anche dopo averlo attraversato tutto il nero dell’esistere, dopo averlo accettato e portato in corpo come un tozzo di pane duro da offrire come un’ostia, si ritorna al mondo – senza averlo chiesto – si ritorna nudi, piallati, disillusi, vivi.
Vieni fuori dal nero
e dovresti sentirti grata
salva, guarita
– nel miracolo, invece
resti solo viva.
Corpo di pane di Elisa Ruotolo, edito da Nottetempo, è capace di coinvolgere attraverso immagini ricche e non scontate che sanno bene raccontare il dolore del darsi alla vita.
Vivo e faccio pace
coi vecchi che muoiono senza colpa
coi bambini che nascono – non grazie a me.
Faccio pace col tempo e le sciagure
del volar basso degli uccelli.
Accetto che il mondo finisca ogni giorno
e non duplico chiavi alla mia porta.
Lascio aperto perché ho fatto pace
con le rapine, i saccheggi alle mie ossa
mi danno tregua.
Non resterà nulla di mio al mondo
e questo è pace.
Parole dimenticate e dimenticati i giorni
a spendere il cuore e la sua lebbra.
Vivo e faccio pace col resto
– i bambini dormono
i vecchi muoiono.
Vorrei misurare il tempo come loro
imparare la vita e insegnarla
e consegnarla a me.
A proposito della bella poesia a conclusione del post; i vecchi nell’India tradizionale lasciavano le cure del mondo per entrare nella foresta alla ricerca dell’assoluto, i bambini vivono senza tempo assaporando la pura esistenza. In mezzo tutti gli altri con i loro pensieri e le loro ragioni, i limiti e le inadeguatezze, dove la pace e il senso dell’esistenza sono una dura conquista quotidiana, una poesia che è anche un colloquio con il nulla nella sua valenza positiva, per estrarne un senso, luogo dal quale arrivano i bambini e dove ci dirigeremo se avremo la fortuna di invecchiare.
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C’è grande sintonia tra lettura e testo, da diventare un tutt’uno. Il tema è antico, forse la ragione stessa della poesia, il fare i conti con lo strappo (buio/luce), con il vaso infranto (“l’insufficienza di se stessi nei confronti della vita”). E la poesia diventa tentativo di mettere insieme i cocci o, appunto, “Desiderio di una rinascita bambina dove ogni cosa è ancora tutta da fare”. Versi cristallini, d’intimo pathos.
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