Secondo la traccia indicata dall’epigrafe di Borges, l’universo di Francesco Cagnetta non si articola nell’ordine conosciuto e comunemente accolto. La Luna e i pianeti, perfino Plutone che non è considerato più tale, appaiono uno dopo l’altro per come il poeta decide di posizionarli nel proprio sistema solare. Non è dato conoscere il criterio di questa scelta: il lettore può soltanto infilarsi tra i testi, cercando una sua sequenza personale, per leggerli e rileggerli, nel tentativo di instaurare un dialogo con l’autore, piuttosto restio a concedersi.
I versi del poeta terlizzese sono inscritti sulla pelle che raccoglie in superficie, come la crosta di un pianeta, i segni che vi giungono dal magma interno dell’uomo, a raccontare ciò che non si vedrebbe soltanto dall’involucro esterno del corpo. Essa è come pergamena che traduce e tramanda la parola incisa nella carne accerchiata e trafitta:
Tutti i poeti hanno un volto/e zigomi da scavare/prima di leggere/vorrei guardarli/ toccare il verso sulla pelle […] La poesia è il contatto/che rafforza la carenza/ le parole sono carne/anime vive sul banco/della mattanza.
Dalla pelle si sconficcano chiodi, sebbene sotto la maglietta lei resti sempre uguale; sulla pelle si snodano viali di inquietudine e si piantano alberi, mentre il tempo scrive indelebile il suo passaggio senza bisogno di inchiostro:
Il tempo si scrive da solo/ non necessita di inchiostro/ o di una mano ferma/lo trovi indelebile/ su ogni parete della pelle.
Tuttavia il percorso spazio-temporale dell’io, che in solitario si aggira tra le cose alla ricerca di sé, non può rivelarsi a pieno su quella mappa: neanche un tatuaggio perenne (Volevo farmi un tatuaggio) potrebbe arrivare all’acquisizione di una certezza che, come la forma anagrafica pirandelliana, rimane ostaggio del dubbio fino alla fine:
Il giorno prima di morire/è un giorno come un altro […] si fa un respiro lungo/ si resta assorti/ in un inesorabile dubbio.
Allora bisogna raschiare, scrostare, perforare, per arrivare a cogliere quello che pulsa sotto l’epidermide della scrittura, dove si trovano solitudine, ricerca incessante, appartenenze e inappartenenze, e un senso di sé che sfugge continuamente:
E quanta pelle, sotto la scorza della pelle/ quanta pelle, quanti strati ci vogliono/ per formare un tessuto, un pensiero compiuto.
Il viaggio poetico nell’universo di Francesco Cagnetta non si svolge mai in assenza del suo peso corporeo, eppure ogni tanto il poeta va in abaria, volge lo sguardo alle stelle, attraversa una porzione di cosmo prima di tornare a toccare il suolo terrestre, e ricominciare daccapo:
Vedo stelle anche di giorno […] Vedo anche Giove nei brandelli sfumati […] Ma credo sia giunta l’ora/ di tornare sulla terra/ tra il volante e la sicura/ oscurante del vetro.
Grazie Roberta per questa nota illuminante su una raccolta che non finisce di stupirmi. Tutto un universo che viene creato, lucido e puntuale nelle sue disanime dell’esistenza, a partire dal quotidiano. La vita destrutturata in tanti scompartimenti, come aprire “la porta del frigo/ per scomporre il buco del giorno./ Tra i ripiani della carne/ e le traiettorie delle cicorie/ l’alito s’infetta prende l’odore/ delle parole informi/ anatomie incancellabili, muffe./… e si fa inchiostro. Per questo la parola si fa “carne”, pianeti appunto di un sistema intimamente umano. Il punto di osservazione rimane solido e ancorato nel proprio vissuto, luoghi e abitudini, ma incantano gli strumenti di osservazione, come in “Urano”, dove il gatto sul comodino “tiene il polso” e “riporta sulla linea cartesiana del sogno”.
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Grazie a te Abele per la bella postilla. Un caro affettuoso saluto. Roberta
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Da quel poco che riesco a leggere avverto una buona sensazione di poesia. Per esempio colgo spunti interessanti sul “Tempo” . Mi piacerebbe leggere qualche altra poesia su questo autore pugliese (ma quanti siamo? ogni giorno ne scopro). Ciao e grazie
Franco
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