Pronome Impersonale (ed. Le Voci della Luna 2019) – Roberto Ranieri
La raccolta di Roberto Ranieri ha il pregio, anzitutto, di essere un canzoniere organico, composto con minuziosa cura artigianale e improntato a un senso molto classico della varietà nell’equilibrio. La scrittura di Ranieri, fondata su un’ottima padronanza della metrica italiana, adopera con eleganza e naturalezza misure classiche (endecasillabo, settenario) a volte entro strutture strofiche regolari (le quartine di novenari a rima incrociata della poesia che apre la seconda sezione), più spesso in forma sciolta, ma sempre con un uso accorto delle rime (anche interne) e delle assonanze. In generale, l’autore si muove con signorile disinvoltura fra registri diversi, inglobando frammenti lessicali più ricercati, preziosi o tecnici, e non rinunciando a immagini suggestive (“nella culla convessa delle tempie”), ma puntando soprattutto a dare alla raccolta un tono medio sostenuto e coerente. […]
[…]… se la prima sezione Beata Virgo è la più eclettica per temi e ispirazioni, il titolo della seconda Esercizi terrestri lascia pensare a un approdo a toni relativamente più intimi e concreti; è una collana di poesie dalla pronuncia più raccolta, che si soffermano sul ricordo di un’amica scomparsa, ma sanno anche accendersi di un sensuale erotismo. La prima sezione, invece, è intervallata da quattro Solfeggi che propongono un gioco intertestuale con la canzone d’autore – giungendo a far duettare Gigliola Cinquetti con Zanzotto – e soprattutto dimostrano la propensione di Ranieri per lanciarsi nel suo monologo a partire da un minimo spunto verbale qualsiasi (qui, le parole dei cantautori), espandendolo e avvitandosi in spirali di apostrofi, ipotetiche e interrogazioni… […]<
dalla prefazione di Roberto Batisti
da Beata Virgo
Contrappello
La luna fa la spola, aggiorna il conto
al vecchio ispettorato della brina,
e la dogana della galaverna
semina i propri agenti sulla collina.
Fra un po’ ci chiameranno. Mostrerai
la foto mai fatta, la firma
che al gelo si scolora, la coscienza
che si coltiva piano dentro i nidi
e i rantoli dei pesticidi.
Io ho già mostrato il calesse
con cui sono arrivato fin quaggiù.
Speravo che bastasse, non è più
tempo di formalismi, mi appellavo
ai battiti del cuore, alle extrasistoli.
Non è servito; il mio lasciapassare
come sempre sarà sulla parola,
il bonus di un pronome personale
in deroga, fra spigoli di storia
e alterità lunare obbligatoria.
Acquagranda
Riprendere parola, e la cautela
non è mai troppa, neanche ai girotondi
dei pronomi in affitto, dei tuoi mondi
recapitati al dormiveglia, all’io
che s’impasticca di vocali al fiato,
prima che in farmacia
si esaurisca la scorta di afasia
con i vaccini e i sali
per sanare gli effetti collaterali.
Non c’è miopia che salvi da quest’umido
precedere in luogo di andare;
non c’è vita su Marte, solo la nostra parte
un poco, solo un poco, legiferare.
Per te, di te, anatema
al palato, epiglottide
che ti dice e non trema;
la buca delle lettere dà buca.
Recuperarti intera, come in un fiotto
di limo dell’alluvione
gridando “è sotto, è sotto”
nel tic cercapersone, sònar rotto.
Solfeggio I (Mina, Paoli)*
No, caramelle io più non ne volevo,
né le parole, quelle che soltanto
fra noi, perché non cambi proprio mai
traforarono i seni occipitali
deponendo l’origine dei guai.
Parole come quando
il rantolo del gelo squassa a vivo
la stanza che ora non ha più pareti
ma alberi infiniti
di neuroni storditi
al fortunale di marzo definitivo.
*Riferimento a Mina, Parole parole, PDU, 1972; Gino Paoli, Il cielo in una stanza, Italdisc, 1960
Bilirubina
La scelta è tua, decidi
di querelare i vivi tra le federe
delle tue notti, o cedi e poi procedi
d’ufficio, senza arrenderti
in qualche perdifiato silenzioso
del sottovuoto, qualche sconnessura
che affoga sottopelle il contenzioso
d’acido e bilirubina della paura.
Fai in deroga, come se fosse
nettare d’oltremondo che ti riempie;
fai come se null’altro ti appartenesse
se non l’ontologia del putiferio
nella culla convessa delle tempie.
***
da Esercizi terrestri
I
Non so se l’affondo dei giorni
in un solo morbo, la ruota
del tempo pregresso che annota
in un solo tratto i contorni
di quanto precede e non segue,
ma latita su un calendario
sfiatato di calci, sipario
di notti che non danno tregue,
non so se quel gesto che stinge
la tua danza agli orli del cuore
in battere, come torpore
di sensi che mai non ti estingue,
non so. So che sei in un altrove
che mescola spazio e minuti
non spesi, ricalcola muti
pre-indizi, dilapida prove.
IV
Se ancora la confisca
di quelle poche notti, giorni bari
in calendari ancora non prescritti,
se il vuoto di contante nella bisca
delle puntate a perderti, se pagine
raschiate per la via
da una vertiginosa endoscopia
di nomi e volti sfatti, se l’indagine
sul perché e sul percome di ogni cosa
non fatta o fatta male, se ogni stretta
di extrasistoli frana e ci dissolve
in nuove doglie per la buonuscita,
ecco, cara, mi attesto
su due piedi moltiplicati cento
lame per cento graffi controvento
sul ghiaccio sporco di una nuova fine,
mi attesto e filo cento
rime, in curva e sul dritto, lunga – breve,
tecnica mista e celia spazzaneve
perché tu sei la mora di ogni affitto,
sei la semenza buona
e il loglio, l’insolvenza che l’agente
del Niente mette in conto, non perdona.
VI
Fila dritto, fa e disfa, non fa sconti
settembre alla tua frase
che storna nubi e case, arrocco corto
oltre l’inquadratura di un risorto,
mai risorgente fino in fondo, autunno.
E il duro addestramento a fare in parti
uguali il sonno e il mio desiderarti;
che non è se non trappola, già pegno
fantalunare di qualche altro corpo
già perso da un teatrante
che ripassa il copione,
aggiusta senza prove
di tenuta sul palco l’aria e il fuoco;
se la tua bocca, i seni fanno il gioco
di sponda silenzioso dell’altrove.
VII
(a R. G.)*
Non c’era trillo o salto
anomalo, Matona
mia cara, sulla chiave di contralto,
non bagliore o capriccio
di una cometa che riavvolga a riccio
le partiture e il senno
di Orlando sotto l’arco
dei cieli di San Marco.
E così tocca il gesto
che da un lato del campo
calle corte masegno irrompe sordo
sulla tempia, la scure
che riazzera l’accordo, e in ogni scisso
simbolo di corona
legifera l’abisso, il non-so-dove
“cantar sotto finestra”, od altra deroga
del riportarti in salvo, in altre prove.
*R. G., corista dei Cantori Veneziani prematuramente scomparsa, a suo tempo compagna di avventure canore per le calli e i campi di Venezia, alle prese con un repertorio che rilanciava, fedele all’invito gioioso “cantar sotto finestra” di un suo verso, il madrigale Matona mia cara di Orlando di Lasso.
*
Non c’era trillo o salto
anomalo, Matona
mia cara, sulla chiave di contralto,
non bagliore o capriccio
di una cometa che riavvolga a riccio
le partiture e il senno
di Orlando sotto l’arco
dei cieli di San Marco.
E così tocca il gesto
che da un lato del campo
calle corte masegno irrompe sordo
sulla tempia, la scure
che riazzera l’accordo, e in ogni scisso
simbolo di corona
legifera l’abisso, il non-so-dove
“cantar sotto finestra”, od altra deroga
del riportarti in salvo, in altre prove.
Che bella! Immerge a San Marco sotto i cieli e le acque veneziane, il ricordo nostalgico, il riportarti in salvo.
Presente passato immagini concrete e sfumate in una linea senza tempo interiore.
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