
Ho incontrato la poesia di Luca Canali (1925-2014) da ragazzo, negli anni 70, le sue due raccolte : “La deriva” e “Il naufragio” sono state per me una scoperta significativa, mi avevano colpito gli slanci improvvisi verso l’alto dei cieli, seguiti subito dopo dalle repentine discese nel profondo di un inferno personale, dove anche le cose ordinarie della vita richiedono uno sforzo insostenibile. Una poesia che pur nella differenza rispetto alla mia visione del mondo ho sempre trovato vicina e fraterna, ed un riferimento anche negli gli anni successivi, certo non il solo e nemmeno quello più importante, ma comunque una presenza costante.
Ho scoperto solo successivamente che era anche un latinista, ha scritto parecchi libri sulla civiltà e sulla letteratura romana, cito quelli che ho letto: “I tre volti di Catullo”, “Lucrezio poeta della ragione” e “Ognuno soffre la sua ombra-Da Catullo a Giovenale: i grandi nevrotici della poesia latina”, è stato anche narratore e saggista. Nel dopoguerra fu militante del partito comunista, venne espulso nel 1958 per il suo dissenso sulla fedeltà all’Unione Sovietica.
Solo pochi mesi prima della morte pubblicò l’ultima opera poetica: “Anticlimax”.
Ho trovato questo fascicoletto in una libreria antiquaria, e non ho potuto evitare di prenderlo, è un articolo del “contemporaneo” del 1964, sulla copertina una nota autografa: “Appunti per un nuovo Don Chisciotte senza grandezza”, Luca Canali parla della malattia che l’ha perseguitato per anni, e che l’ha anche obbligato a lasciare l’insegnamento universitario, parla della depressione, delle ossessioni e dei comportamenti coatti che induceva, ma in fondo arriva anche a trovare un’utilità nascosta nel male, nella straordinaria intensità emotiva che comporta. La malattia come incubo e privilegio, fonte di fragilità e insieme di grande forza, per dirlo con le sue parole.
Riporto una parte di questo articolo, e poi tre poesie da tre raccolte differenti.

Il silenzio delle pulci
Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande
scientifiche hanno avuto risposta, i mostri problemi vitali non sono
ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna;
e appunto questa è la risposta.
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (6.52)
E’ stato più volte asserito che i morbi del corpo e dell’anima fanno
velo alle facoltà razionali, e che non di rado i loro fantasmi sono scambiati dai medesimi infermi pensanti per ferrate costruzioni logiche, laddove invece essi divergono al massimo nella loro allucinata certezza dalla realtà delle condizioni oggettive. Così, secondo tale proposizione, le neurosi e i deliri, per non parlare di più tangibili guasti organici, sublimando in concezione del mondo possono tutt’al più costituire la base di una poetica, o comunque un’immaginazione privata, ma non l’avvio ad un processo conoscitivo.
Al contrario io mi chiedo se la salute, cioè il perfetto equilibrio corporeo, l’inavvertito ciclo delle funzioni e il fluire dei processi mentali negli argini di una realtà convenuta, non eliminini quell’attrito col mondo, quel continuo arrovellarsi in se stessi, quell’aberrare dai pensieri comuni da cui discende in ultima analisi la capacità di intravedere oltre i limiti della relatività funzionale qualche barlume di verità più diffusa.
Comprendo bene che la salute, in tal modo definita, sia il più efficace strumento di attacco, o quantomeno di attiva difesa, in una società in cui la lotta spietata è divenuta condizione di vita; e che un corpo e una mente ben sani, senza aritmie e senza ingorghi, siano i mezzi più adatti a sussistere, a smemorarsi nella selvaggia felicità delle azioni, nella ottusa ma onorevole beatitudine delle idee strumentali, nel deciso procedere, nell’imperturbata fede nell’apparenza delle cose, insomma nella propria saldezza animale neppure sfiorata ‘dal sospetto che quel livello, quella dimensione, quel profilo siano soltanto una, neanche la più attendibile, delle infinite ipotesi del mondo.
Ed è pur vero che una momentanea caduta di forze può immantinente tramutarsi in disfatta, con le mille ostilità represse che insorgono, e di una smagliatura nella trama, di una fessura nel bunker fanno breccia per precipitarvisi a calpestare ed irridere chi le aveva provocate e sfidate, unicamente pago di un’ingannevole competizione vitale.
Ma ugualmente io credo che quella forza estroversa celi in sé più debolezza d’ogni inversione, e più oscurità d’ogni dubbio, perché il vuoto che è in essa la disarma e per così dire rinnega, non appena un malessere la turbi o un imprevisto la incrini. E più feconda non solo di fantasia e di saggezza, ma anche di umanità non corriva, reputo la condizione d’infermo, sempre naturalmente che il male, corporale o mentale che sia, non stravolga del tutto la personalità e ne dissolva i legami.
Perciò occorre consistere, avere cioè un punto di resistenza, di volontà o di cultura, saper vivere col morbo, per cosi dire in dimestichezza con esso, e lasciarsene astrarre dalla ottusa immersione oggettiva che fa perdere la molteplicità dei contrasti, ma al tempo stesso dominarlo quasi dall’esterno con una superiore coscienza, servirsene insomma! almeno finché natura lo conceda, e trarne alimento a intuizioni inconsuete ma spesso più attendibili delle comuni, le uniche per cui si abbia il diritto di chiamarsi uomini e non più semplicemente animali. Si vedrà allora che da siffatti mali, o meglio da siffatti malati, irradiano più lucidità e forza di spirito, e persino più tensione vitale che da ogni perfetta fisiologia funzionale.
***
Si pensi alla straordinaria intensità emotiva delle neurosi, agli abissi e altitudini cui esse fanno arrivare, sia pure a un prezzo così alto di sofferenza pagato dal paziente: al veggente distacco delle depressioni, all’irrefrenabile brulichio cerebrale delle manie, all’oggettività e alla critica disperate degli stati schizoidi (originati da una estrema soggettività dissociata che conferma l’intercambiabilità degli opposti non collegati in equilibrio dialettico), alla fulminea sinteticità dei deliri febbrili, alla vertigine d’assoluto raggiunta nelle perversioni sessuali, senza contare il sottofondo etico-sociale di talune di esse: il complesso sadico-anale e la coprofilia (o coprofobia che è il rovescio del medesimo stato emotivo) si dice siano il manifestarsi nella psiche dell’uomo della vittoria del desiderio di morte (una sorta di cupio dissolvi) sul consueto desiderio di vivere; ma chi può dire che la vita quale essa è, e che può essere mutata solo in misura insufficiente rispetto al bisogno di totale armonia che è in ognuno, è tale da poter essere consapevolmente desiderata, e che dunque quelle aberrazioni non siano un’assurda affermazione di libertà e quel desiderio di morte un’asserzione di paradossale razionalità nell’irrazionalità della apparente razionalità divulgata?
Del resto i due concetti che della vita ci si deve comunque accontentare, o che ci si deve appagare di quel poco che si è in grado di modificarla, e il derivato concetto unificante secondo cui la « maturità » coincide con una qualsiasi delle due alternative enunciate, sono in realtà proposizioni filistee in cui si esprime solo l’istinto di conservazione.
Ci sono momenti in cui sembra estremamente facile vivere come gli altri, spensierati e persino in eccellente salute: basterebbe rompere quell’attrito con la società e con gli individui in essa integrati, uniformarsi alle loro consuetudini, alle loro leggi, ai loro commerci e balordi ideali, distendersi insomma e galleggiare nella corrente; ma come desiderare ciò, se questa resa tranquillante (l’unico vero tranquillante delle terapie moderne) esaurisce nel contempo la volontà di battersi, di riflettere, di comunicare e sia pure di distruggersi in un urto continuo e senza speranza?
Senza speranza, appunto, come un morbo incurabile che nell’epidemico ottuso benessere sia l’unica forma superstite di stravolta salute. Ed ecco perciò quelle perversioni e quei morbi risolversi in ribelle affermazione di vita, in una sorta di rivoluzione privata, sia pure votata alla disfatta dell’io.
Ma di tutti i mali il più utile, nel senso finora illustrato, è l’astenia della psiche, o psicastenia com’è appunto registrata nei testi, che pone il paziente in una condizione d’infermità multiforme e diuturna eppure, per la singolare natura del male, quasi mai disperatamente aggressiva. Così l’infermo di tal fatta può aver sofferto tutti i mali senza averne avuto nessuno, e conoscere tutti i patemi e tormenti conservando una sanità adamantina: ciò ovviamente se non sopraggiungano altri mali a turbarlo o se il suo stato non si squilibri per il sopravvenire di qualche grave sventura.
Di tale male soffro io, e voglio dire con un esempio, per risalire alle generali,
quale incubo e privilegio, quale fonte di fragilità e insieme di grande forza esso sia.
Tre poesie di Luca Canali Da Il naufragio, Rizzoli 1983 Fuga Madre che sei in terra neanche se fossi in cielo, e il cielo irradiasse prodigi, potresti aiutarmi? Le opere i voti, i sortilegi di un passato malefico o soltanto segnato da una ruga del destino, m’inchiodano a un presente di nefaste malie senza futuro. Oggi un cane randagio seguiva con occhio stupito i miei scarti palesi dalla norma che il sole abbacinava, passanti scamiciati. Il mio completo di grisaglia, il mio cappio di cravatta, il mio incedere a strappi, anche alla bestia che cercava amici impediva l’approccio. Restai solo. Madre che sembri incisa In sughero, fiorita nel salnitro, e preghi un iddio che ricorda soltanto le mende e non sa perdonare, vorrei piegare ai vagabondi il mio diverso seme di ferrei schemi, o ritornato all’antica saggezza, rifugiarmi nell’apàtia dei celesti intermundia. Da Strani movimenti – Crocetti 1985 Vice Versa Vorrei figlia che tu crescessi in fretta, ed io tornassi bambino; che tu divenissi mia madre dacché io non sono stato capace di crescere ad altezza di padre. Da Anticlimax + LCE Edizioni 2014 III Quando dall’universo anidro scomparirà il pigmento della vita, e la piaga occulta dei miti e gli schemi della ragione si faranno calcina negli occhi dei vagabondi innamorati, negli spazi della luce non vagheranno farfalle né rondini, e il mare prima d’ impietrire scroscerà d’una vibrazione metallica. Ma io lo preverrò catturando il ricordo in un gesto che mi offra traendolo a volo dall’orlo di un labile contagio vitale il sollievo del vento che spira da rive e tempi remoti in cui trasvolavano nubi ed astri splendevano in fronte a mercanti e a nocchieri riflessi in un lampo dagli occhi dell’ultimo ribelle accecato. Da Anticlimax + LCE Edizioni 2014
Per me è il traduttore dell’Eneide (letta al liceo). Devo assolutamente scoprirlo come narratore…
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