Giancarlo Locarno – Studio dell’autoritratto del Parmigianino – matita
Stanza 1
Come lo fece il Parmigianino, la mano destra
più grande della testa, entra nello spettatore
sviandolo gentilmente, come per proteggere
qualcosa che vorrebbe bandire. Qualche vetro piombato, vecchie travi,
pelliccia, mussola pieghettata, un anello di corallo, si armonizzano
in un movimento che sorregge il viso, che nuota
ora vicino ora lontano come la mano
se non fosse che il viso è rilassato. Nonostante sia
sotto sequestro. Il Vasari dice, “ Francesco un giorno cominciò
a dipingere il proprio ritratto, guardandosi riflesso
in uno specchio convesso, del tipo usato dai barbieri…
per quello scopo fece fare una palla di legno
da un tornitore, la divise poi a metà
e la ridusse alla misura dello specchio, e si mise
con grande arte a copiarci sopra tutto quello che vedeva dentro lo specchio”
principalmente la sua riflessione, di cui il ritratto
è il riflesso del riflesso.
Lo specchio scelse di riflettere solo ciò che lui vedeva,
fu sufficiente per il suo proposito: la sua immagine
invetriata, imbalsamata proiettata a un angolo di 180°.
L’ora del giorno, o la densità della luce
aderente alla faccia lo mantiene
vitale e intatto in un’onda ricorsivamente
in arrivo. L’anima definisce sé stessa.
ma quanto lontano può entrare dentro gli occhi
e ancora ritornare salva al suo nido. La superficie
dello specchio è convessa, allora la distanza aumenta
significativamente; questo è sufficiente per percepire
che l’anima è prigioniera, trattata umanamente, tenuta
in sospensione, resa incapace di andare più lontano
del tuo sguardo quando intercetta il quadro.
Papa Clemente e la sua corte furono “stupefatti”
Proprio come il Vasari, e promisero una commissione
che non si materializzò mai. L’anima deve stare dov’è,
anche se inquieta, ad ascoltare le gocce di pioggia sulla vetrata
il singhiozzo delle foglie d’autunno trascinate via dal vento,
il desiderio di essere liberi, di andare fuori, ma purtroppo deve stare
ferma al suo posto. Si deve muovere
il meno possibile. Questo è quello che dice il ritratto.
Ma in quello sguardo c’è un miscuglio
di tenerezza, divertimento e rimpianto, così potente
nel suo ritegno che nessuno lo reggerebbe troppo a lungo.
Il segreto è molto semplice. La sua pietà ha un’intelligenza acuta
fa schizzare calde lacrime: così che l’anima non ha più un’anima,
non ha segreti, è piccola e si adatta perfettamente
alla sua cavità: la sua stanza e il nostro momento di attenzione.
Quella è la melodia, senza bisogno di parole.
Le parole sono solo speculazione
(dal Latino speculum, specchio):
cercano ma non possono trovare il significato della musica.
Noi vediamo solo le posture del sogno, possiamo
controllare un movimento di oscillazione della faccia
sotto multiple viste nei cieli serotini, senza
nessun falso disordine come dimostrazione di autenticità.
Ma anche la sua vita è così inglobata.
vorrebbe infilare la mano
fuori dal globo, ma la sua dimensione,
lo spazio che la sostiene, non lo consente.
Nessun dubbio che è questo, e non il riflesso
di nascondere qualcosa, che rende grande il disegno della mano
che appena si ritrae leggermente. Non c’è modo
di costruirla piatta come la sezione di un muro:
deve racccordarsi al segmento circolare
ciondolando all’indietro fino al corpo del quale
è incredibilmente una parte, così da delimitare e consolidare il viso
sul quale gli sforzi per ottenere questa condizione lasciano intravvedere
la localizzazione puntuale di un sorriso, una scintilla
o una stella che non si è sicuri di aver visto
al sorgere del buio, una luce perversa il cui
imperativo di sottigliezze sembra negare
la vocazione di illuminare: non è più importante anche se desiderata.
Francesco, la tua mano è grande abbastanza
da far naufragare la sfera, e troppo grande
più di quello che si possa pensare
per tessere trame così delicate
al solo scopo di argomentare il senso di un’ulteriore reclusione
(grande ma non grossolana, su tutta un’altra scala,
come confrontare una balena che sonnecchia sul fondo del mare
relazionandola alla minuscola, ma altezzosa nave
sulla superficie). Ma i tuoi occhi proclamano
che ogni cosa è superficie. La superficie è quello che c’è
e nulla può esistere eccetto ciò che c’è.
Non ci sono luoghi reconditi nella stanza, solo alcove
la finestra non ha molta importanza, così come
la scheggia di serramento o di specchio che sia, non serve nemmeno
come indicatore del clima esterno, che in Francese è
Le temps, una parola che indica anche il tempo, e
sembra seguire una rotta nella quale i cambiamenti sono
mere sfaccettature del tutto, questo tutto che è così stabile nella sua
instabilità, come il nostro globo
che riposa su un piedistallo di vuoto, una pallina da ping-pong
in equilibrio sul suo getto d’acqua.
Esattamente come non ci sono parole per definire la superficie, voglio dire
che non ho parole per dire cosa è la realtà, o meglio cosa non è
solo in superficie ma dentro il suo nucleo visibile, allora non c’è
via d’uscita dal confronto tra il pathos e l’esperienza.
rimarrai inquieto, ma sereno
nel tuo habitus che non è abbraccio e nemmeno avvertimento
ma che possiede qualcosa di entrambi
così, come una pura affermazione che non asserisce niente.
Stanza 2
Il palloncino esplode scoppia, l’attenzione
si attenua e si allontana. Nuvole
nella pozzanghera sguazzano e si rimescolano in frammenti dentellati.
Penso agli amici che verranno a trovarmi, a cos’era ieri
a cosa sembrava. Una peculiare inclinazione
della memoria che si intromette nel modello in dormiveglia
nel silenzio dello studio appena si risolve a vagliare
se sollevare la matita per continuare l’autoritratto.
Tante persone vengono, rimangono un certo tempo
proclamano parole luminose o buie che diventano parte di te
come un lumino al di là delle nebbie e delle sabbie scagliate dai venti,
così filtrate e compenetrate da essi, finchè non rimane più nulla
di sicuramente tuo. Quelle voci dal crepuscolo
ti hanno detto tutto, e ancora il racconto vaga
sotto forma di memorie depositate dentro grappoli
irregolari di cristalli. Francesco, di chi è la mano curva
che controlla la rotazione delle stagioni e di questi pensieri
che si sbucciano e se ne volano via alla velocità del respiro
come le ultime foglie testarde che vengono strappate
dai rami umidi? In tutto questo leggo solo il caos
del tuo specchio arrotondato che organizza ogni cosa
intorno alla stella polare dei tuoi occhi vuoti
che non conoscono nulla, sognano ma non svelano nulla.
Sento la giostra che arranca lentamente
poi procede sempre più veloce: scrittoio, giornali, libri
fotografie di amici, la finestra e gli alberi
si fondono in un nastro neutrale che mi avviluppa
da ogni parte, ovunque giri lo sguardo.
Non riesco a spiegare l’azione del livellare
perché tutto dovrebbe bollire in un’unica
sostanza, un magma delle interiora.
La mia guida in questa materia è il tuo sè
tenace, obliquo, nell’accettazione di ogni cosa con lo stesso
spettro di sorriso, ed un tempo così accelerato che diventa presto
molto tardi. Posso conoscere solo la via d’uscita diretta
quella della distanza tra di noi. Un tempo
le evidenze disseminate qua e là significano pure qualcosa,
così i piccoli inconvenienti e i piaceri
di un giorno che avanza sgraziato
come una casalinga intenta alle faccende. Impossibile ora
riesumare quella proprietà che nella sfocatura argentina
è il ricordo di quello che hai realizzato sedendoti e
“con grande arte ricopiare tutto quello che vedi nello specchio”
per raggiungere la perfezione ed escludere tutto ciò che è estraneo
per sempre. Nel cerchio delle tue intenzioni certi punti fissi
rimangono a perpetuare l’incanto di sé con sé stessi:
ombretti, mussola, corallo. Questo non importa
perché sono cose che appartengono all’oggi
prima che l’ombra si espanda e le avvolga
trasportandole fuori dal campo dei pensieri del domani.
Stanza 3
L’oggi è facile, il domani è inesplorato
desolato, riluttante, come ogni paesaggio
che detta le leggi della prospettiva
dopo tutto, solo alla profonda incredulità
del pittore, un debole strumento
benchè necessario. Naturalmente alcune cose
sono possibili, questo lo riconosce, ma sa
quali. Un giorno o l’altro cercheremo
di fare tante più cose ci sia possibile
e per una manciata di loro avremo anche successo,
ma questo non ha niente
a che fare con quanto promesso oggi. Questo
paesaggio viene spazzato via lontano da noi, fino a scomparire
all’orizzonte. Oggi basta un coperchio lucidato
per trattenere insieme la supposizione di tante promesse
su un angolo di superficie, accennando a un vagare di ritorno
ci stacchiamo da loro, così che queste forti possibilità possano rimanere
integre senza essere verificate. Attualmente
la pelle della camera a bolle è ostica
come un uovo di rettile; ogni cosa lì viene “programmata”
nel modo appropriato: dell’ altro viene incluso
senza che si modifichi la somma, ed è esattamente come
ci si abitua al rumore che prima
ci teneva svegli ma che ora non lo fa più,
la stanza contiene questo flusso come una clessidra
senza variazioni di clima o di qualità
(eccetto forse nell’illuminare cupamente, quasi
invisibilmente, con una particolare attitudine nel mantenere il focus sulla morte
– dirò su questo di più più avanti) quello che dovrebbe essere il vuoto di un sogno
si riempie continuamente come se vi sgorgasse la sorgente dei sogni
ma così prosciugata che ogni singolo sogno si schiude come una rosa centifolia,
sfidando le leggi suntuarie, ci lascia svegliare e tentare di vivere in quello
che ora è diventato un bassofondo, Sydney Freedberg nel suo
“Parmigianino” dice di lui: “Il Realismo in questo ritratto
non produce più una visione oggettiva, ma una bizzarria …
Comunque la sua distorsione non crea
una sensazione di disarmonia … Le forme trattengono
una grande misura di bellezza ideale, “ perchè
nutrite dai nostri sogni, appaiono così irrilevanti finchè un giorno
noteremo quel buco che ci hanno lasciato. Ora la loro importanza
se non il loro significato è chiaro. Esse nutrirono un sogno
che le include tutte,
finalmente riversate nello specchio che le accumula.
Sembrano strane perché attualmente non possiamo vederle.
Noi realizziamo questo solo nell’attimo in cui si degradano
come un’onda che si frange su una roccia
rinunciando alle sue forme con un gesto che comunque le esprime.
Le forme trattengono una forte misura di bellezza ideale
come se si nutrissero in segreto della nostra idea di distorsione.
Perché essere infelici di questa sistemazione dal momento
che i sogni ci prolungano i sensi proprio nel momento in cui vengono assorbiti?
Qualcosa come il vivere allora avviene, con un movimento
che è fuori dal sogno ma dentro la sua codifica.
Stanza 4
Quando comincio a dimenticarlo
ecco che mi presenta ancora il suo stereotipo
uno stereotipo non familiare, la faccia
legata a un’ancora, sembra uscita da chissà quali azzardi,
e corre veloce per cercarsene altri, “più angelo che uomo (Vasari)”.
Forse un angelo custodisce lo sguardo delle cose
che abbiamo dimenticato, e con dimenticate intendo
quelle cose che ormai non ci sembrano più familiari quando
le incontriamo di nuovo, perse oltre ogni dire,
ma che una volta ci appartenevano. Questo potrebbe essere il punto
in cui si viola la vita di quest’uomo
“dilettante d’alchimia, ciò che cerca
non è l’esaminare le sottigliezze dell’arte
col distaccato spirito scientifico: ma tentare attraverso di loro
di impartire una lezione di novità e di stupore allo spettatore”
(Freedberg). I ritratti successivi come “il gentiluomo”
Degli Uffizi, il “Giovane prelato” alla Galleria Borghese e
la napoletana “Antea” sbocciano da una tensione
manierista, ma qui come Freedberg puntualizza,
la sorpresa e la tensione sono nel concetto
e non nella sua realizzazione.
La consonaza con l’alto Rinascimento
è presente, benchè distorta dallo specchio.
Quello che c’è di nuovo è l’estrema cura nel rendere
le velleità della superficie arrotondata e riflettente
(è’ il primo ritratto allo specchio)
e tu potresti sentirti raggirato per un momento
prima di realizzare che la riflessione
non è la tua. Ti senti allora come uno di quei
personaggi di Hoffmann deprivati
della riflessione, eccetto il fatto che tutto di me
viene soppiantato dalla stretta
alterità del pittore nell’alterità
della sua camera. Lo abbiamo sorpreso
al lavoro, no, lui ha sorpreso noi
per come lavora. Il quadro è quasi finito
così come l’incanto, come quando guardando fuori
si rimane stupiti dalla neve che cade
trasformandosi in granuli luccicanti.
Tutto questo è accaduto mentre si era in casa, a dormire,
e non c’era nessuna ragione per la quale
si sarebbe dovuto rimanere svegli, eccetto il fatto che il giorno
volge alla fine e sarà duro
prendere sonno questa notte, se non a un’ora tarda.
Stanza 5
L’ombra della città inietta la sua
necessità impellente: Roma dove Francesco
era al lavoro durante il Sacco: le sue invenzioni
meravigliarono i soldati durante la scorreria nella sua casa;
che decisero di risparmiagli la vita, ma lui fuggì subito dopo;
Vienna dove si trova ora il dipinto, e dove
lo vidi con Pierre nell’estate del 1959; New York
dove mi trovo ora è come il logaritmo
delle altre città. Il nostro paesaggio è vivo di filiazioni, di vai e vieni;
gli affari si basano sull’apparenza, sono gestualità,
sono sentito dire. E’ un’altra vita per la città
il retro dello specchio di uno studio
non ancora identificato ma abbozzato con precisione. Esso vuole
travasare la vita fuori dallo studio, sgonfiare
il suo spazio così ben circoscritto in pure emanazioni. Renderlo un’isola.
Quella operazione è stata messa temporaneamente in stallo
Ma qualcosa di nuovo sta arrivando, una nuova preziosità
è nel vento, puoi sopportarla
Francesco? Sei abbastanza forte per lei?
Questo vento ti porta qualcosa che anche lui non conosce, è
autopropellente, cieco, non ha nessuna nozione
di sé. E’ la sua inerzia che una volta
accettata rende sapide tutte le attività, pubbliche o segrete:
il sussurro della parola che non può essere compresa
ma solo avvertita come un gelo, una ruggine
che porta lontano lungo i promontori e le penisole
delle tue venature e così lungo gli arcipelaghi
e nella battigia, e nei segreti ventosi del mare aperto.
Questo è il lato negativo, il lato positivo è
che ti fa guardare la vita e le tensioni
che sembravano andarsene, ma ora
come questo nuovo modo richiede,
si precipitano ormai nel fuori moda. Se vogliono diventare dei classici
devono decidere da che parte stare.
La loro reticenza ha minato
lo scenario urbano, costruito le loro ambiguità
testarde e stanche, come il gioco di un vecchio.
Ciò di cui abbiamo bisogno ora è quello strano
sfidante che picchia sulla porta di un attonito
castello. Il tuo argomento, Francesco,
è cresciuto ritrito come se non avesse risposte
o se queste fossero ancora da venire. Se tutto si dissolve
in polvere significa che il suo tempo è ormai passato
già da tempo. Ma ora guarda e ascolta:
può darsi che una nuova vita sia accatastata
in recessi che nessuno conosce. Quella
non noi è il cambiamento; e noi siamo in effetti in lei
Se potessimo tornare indietro, e rivivere le strade
che ha percorso, volgere il viso al globo mentre tramonta
e uscirne intatti:
nervi normali e respiro normale.
Dato che è una metafora
per includerci, noi siamo parte di lei
e possiamo vivere in lei, come in effetti abbiamo fatto.
Solo lasciando la mente spoglia pronta per un interrogatorio
che sappiamo non avverrà a caso
ma in modo ordinato senza minacciare
qualcuno – Il modo normale in cui le cose sono fatte,
come la crescita concentrica dei giorni
attorno a una vita: ed è giusto così se ci pensi.
Stanza 6
Una brezza leggera come il voltare di una pagina
ti riporta indietro la faccia: il momento
addenta un gran boccone dalla nebbia
di una piacevole intuizione che lo precede.
Rinchiudersi in un posto è “la morte stessa,”
come Berg disse di una frase della Nona di Mahler;
o, per citare Imogene in “Cymbeline”, “ Non può esserci
nella morte un morso più acuto di questo”, per quanto
sia solo una tattica o un esercizio, trasporta
lo slancio di una convinzione appena edificata.
L’oblio non può rimuoverla
nemmeno il desiderio può riportarla indietro, finchè persiste
il bianco precipitato del suo sogno
nel segno dei sospiri scagliati al nostro mondo
come uno straccio gettato sulla gabbia degli uccelli. Ma è certo che
ciò che è bello appare solo in relazione a una specifica
vita. Sperimentata o no, incanalata in certe forme
impregnate della nostalgia di un passato collettivo.
La luce si soffonde oggi con un entusiasmo
che ho già osservato altrove, e so perché
appare così ricca di significato, altri avevano percepito
questo percorso anni fa. Io procedo consultando
lo specchio che non mi appartiene più
e che costituisce la mia parte.
di vivace vuoto
E il vaso è sempre pieno
perché c’è così poco spazio e bisogna sistemarci ogni cosa. Il modello
che si vede non va preso meramente per quello che è,
ma come qualcosa che si può immaginare fuori dal tempo - non come un gesto
ma come un tutto, nel suo raffinato e assimilabile stato.
Ma questo universo di cosa è il sagrato
mentre gira incessantemente dentro e fuori, avanti e indietro
rifiutando di circondarci ma rimanendo ancora l’unica
cosa che possiamo vedere? L’amore una volta
capovolse il piatto della bilancia ma ora è nell’ ombra, invisibile,
sebbene misteriosamente presente, da qualche parte.
Ma noi sappiamo che non può essere schiacciato
in mezzo a due momenti adiacenti, i suoi menandri
non portano da nessuna parte se non verso ulteriori affluenze
che si svuotano in un vago
senso di qualcosa che non potrà mai essere conosciuto.
Sebbene sembri che ciascuno
si illuda di conoscere cosa sia e di essere in grado
di comunicarlo agli altri. Ma lo sguardo
che alcuni indossano come un simbolo fa si che si
voglia passare oltre ignorando l’apparente
naïveté del tentativo, senza curarsi del fatto
che nessuno sta ascoltando, da quando la luce
si è accesa una volta per tutte nei loro occhi
ed è presente , intatta, come una anomalia,
vigile e silenziosa. Superficialmente
non appare nessuna ragione speciale per la quale quella luce
dovrebbe essere focalizzata dall’amore, o perché
la città che collassa coi suoi bei quartieri
in uno spazio sempre meno chiaro, meno definito,
debba leggersi come il supporto del suo progresso,
il cavalletto sul quale il dramma si è dispiegato
alla sua stessa soddisfazione e alla fine
del nostro sognare, come mai avremmo immaginato,
volesse finire, alla luce del giorno sfinito
con il pegno del ritratto, una catena.
questa anonima e mal definita giornata
contiene in sé il segreto del luogo in cui accade
e non ci consente più di ritornare alle troppe
affermazioni contradditorie raccolte, ai vuoti di memoria
dei testimoni. Tutto ciò che conosciamo
è che siamo un po’ in anticipo, che
oggi ha quella speciale, lapidaria
oggità che la luce del sole riproduce
con fede, scagliando rami d’ombre sugli irresponsabili marciapiedi.
Nessuno dei giorni precedenti è mai stato come questo.
ero solito pensare che tutti i giorni fossero simili
che il presente fosse visto allo stesso modo da tutti
ma questa confusione viene presto drenata via
perché siamo sempre sulla cresta del nostro preente.
Ancora, lo spazio “poetico” che ha il colore dello strame
Attraverso un lungo corridoio torna indietro fino al ritratto,
il suo lato oscuro, è
una sorta di finzione dell’ “arte” , da non immaginarsi come realtà
tantomeno come qualcosa di speciale? Non ha anch’esso la sua tana
nel presente dal quale tentiamo sempre di fuggire
ma sempre precipitiamo indietro, come il mulino ad acqua dei giorni
macina il suo monotono e sereno corso?
Penso stia cercando di dire che è oggi
e noi dobbiamo uscire d questo oggi come fa il pubblico
che veloce attraversa il museo
per esserne fuori giusto all’orario di chiusura.Non si può vivere là.
Lo smalto grigio del passato si attacca a tutto ciò che sappiamo:
i segreti delle velature e delle finiture ci hanno preso tutta la vita
per essere appresi, ora sono ridotti allo stato di
illustrazioni in bianco e nero in un libro dove le tavole a colori
sono rare. Ovvero, tutto il tempo
ridotto a non essere nessun tempo speciale. Nessuna
allusione ai cambiamenti; e ciò
significa richiamare troppa attenzione su sé stessi
aggravando il timore di non uscirne
prima di aver visitato l’intera collezione
(eccetto le sculture nel seminterrato:
sono nel luogo al quale appartengono).
Il nostro tempo diventa sempre più velato, compromesso
dalla volontà del ritratto di resistere.
Questo suggerisce quello che speravamo di tenere nascosto.
Non ci servono i dipinti o
le filastrocche scritte da maturi poeti quando
l’esplosione è così precisa, così bella.
C’è qualche interesse a riconoscere
tutto questo? Esiste realmente?
Certamente non c’è più l’agio di indulgere
in passatempi grandiosi.
L’oggi non ha margini, gli eventi arrivano
traboccano dai bordi, sono della stessa sostanza,
indistinguibili. “Il Gioco” è altrove;
esiste in una società specificatamente
strutturata per essere una dimostrazione di sé stessa.
Non c’è altro modo, e quei coglioni
vorrebbero confondere ogni cosa col loro gioco di specchi
che sembra moltiplicare la posta in gioco e le possibilità di vincerla, o
almeno confondere i problemi – gli ostacoli per mezzo di un’aura
che impregna e vorrebbe corrodere l’architettura
del tutto in una caliginosa e repressa derisione,
ma sono a lato della questione. Sono fuori dal gioco
che non esiste finché loro non ne sono usciti.
Un gioco che appare come un universo assolutamente ostile
come il principio che regge ogni cosa individuale
è ostile, ed esiste a spese di tutti gli altri
come i filosofi hanno spesso osservato, almeno
una cosa, il muto indiviso presente,
ha la su giustificazione logica, che
in questo caso non è cosa cattiva
o non lo sarebbe se il modo di raccontare
non si intromettesse in qualche modo
stravogendo il risultato finale
in una caricatura di sé stesso. Questo succede
sempre, come nel gioco dove
una frase sussurrata tra una catena di persone attraversa la stanza
e finisce per diventare qualcosa di completamente differente.
Questo è il principio che rende il lavoro finito così diverso
da quello che l’artista voleva. Spesso pensa
che ha omesso cose cominciate
precedentemente. Sedotto dai fiori,
piaceri espiciti, dei quali si incolpa (benché
segretamente soddisfatto del risultato), fingendo
di avere qualcosa da dire la sua in proposito ed esercitando
un’opzione della quale era appena cosciente,
inconsapevole del fatto che la necessità aggira quelle risoluzioni
così da creare qualcosa di nuovo
per sé, e non c’è un altro modo,
la storia della creazione procede accordandosi
a leggi stringenti, e quelle cose
vengono fatte in questo modo, ma non sono mai le cose
che noi vogliamo realizzare e cercare così disperatamente
di dargli un’esistenza. Il Parmigianino
l’ha capito mentre lavorava al suo
compito che occlude la vita. Siamo forzati a leggere
la perfetta e plausibile realizzazione
in una morbida e perfino mite (ma così
enigmatica) finitura. Non c’è nulla
di così serio circa l’al di là di questa alterità
che viene inclusa nella più ordinaria
forma dell’attività quotidiana, modificando ogni cosa
dolcemente ma profondamente e piangendo per l’atto
della creazione, ogni creazione, non solo quella
che esce dalle nostre mani, da installare su qualche cima
mostruosa e vicina, troppo vicina per poterla ignorare, troppo lontano
perché si possa intervenire? Questa alterità
questo “non essere noi” è tutto quello che c’è da guardare
nello specchio, benché nessuno sappia dire
come mai sia venuta così. Una nave
battente colori sconosciuti è entrata nel porto
tu stai permettendo ad argomenti estranei
di spezzare il tuo giorno, offuscare
la sfera di cristallo. La scena scivola via
come vapore sparpagliato nel vento. Il fertile
pensiero associativo che finora si presentava
facilmente, non appare più o lo fa sempre più raramente.
La loro colorazione è meno intensa, dilavata
dalle piogge e dai venti autunnali, ammuffita, infangata,
vi ritorna indietro perché ormai inutile.
Siamo ancora quelle creature dalle abitudini
le cui implicazioni ci girano ancora intorno, confondendo
i problemi. Essere seri solo sul sesso
è forse un modo, ma le sabbie cominciano a sibilare
quando si avvicinano all’inizio della grande scivolata
dentro ciò che è stato. Questo passato
è ora qui:
la faccia riflessa del pittore, sulla quale indugiamo, ricevendone
sogni e ispirazioni, su una frequenza non assegnata,
ma la nuance volge al metallico,
le curve e i contorni non sono così ricchi. Ogni persona
ha una sua grande teoria per spiegare l’universo
ma non racconta l’intera storia
e alla fine quella che conta si trova al di fuori di lui
conta specialmente per noi
che non abbiamo mai avuto aiuto da nessuno
nel decodificare il valore del nostro quoziente umano
e dobbiamo affidarci a conoscienze di seconda mano. Eppure so
che il gusto di chiunque altro non mi sarà
di nessun aiuto, e potrebbe quindi essere ignorato.
Una volta appariva di una lucentezza così perfetta sulla bella
pelle lentigginosa, le labbra inumidite come se pensassero alla partenza
di un discorso, e lo sguardo familiare
dei vestiti e dell’arredo del quale ci si dimentica.
Questo potrebbe essere stato il nostro paradiso:
un rifugio esotico in un mondo esausto, ma cosa non c’è
nelle carte? Perché quello potrebbe non essere
il punto. Scimmiottare la naturalezza può essere il primo passo
verso il raggiungimento di una calma interiore
ma è solo il primo passo, e spesso
rimane il segno di un gelido benvenuto inciso
nell’aria che si materializza con un po’ di ritardo,
una convenzione. E noi non abbiamo davvero
tempo per queste cose, a meno che le usiamo
per l’ignizione. Prima bruciano
meglio è per il ruolo che dobbiamo giocare.
Quindi ti imploro, lascia quella mano,
non offrirla più come scudo o ringraziamento,
al riparo di un saluto, Francesco:
c’è ancora spazio per un proiettile nella camera:
il nostro sguardo rivolto all’estremità sbagliata
del telescopio quando tu ricadi indietro a una velocità
superiore a quella della luce per spiaccicare
tra le suppellettili della stanza, un invito
mai spedito, la sindrome di dire “era tutto un sogno”
benchè “tutto” dice in modo seccamente
sufficiente che non è vero. La sua esistenza
era reale, sebbene perturbata, e il dolore
per questo sogno da svegli non potrà mai soffocare
lo schema ancora schizzato nel vento,
scelto, significativo per me e materializzato
nella radiosità dissimulata della mia stanza.
Noi abbiamo visto la città, è il gibboso
occhio riflesso di un insetto. Tutto accade
sui loro balconi, dove tutto ricomincia.
Ma l’azione è il freddo, il flusso sciropposo
di una parata. Ci si sente come prigionieri,
che investigano la luce d’aprile in cerca di indizi
nella mera immobilità dei suoi semplici
parametri. La mano non regge più il gesso
e ogni parte dell’intero precipita
e non sa più quello che sapeva, se non qualcosa
qui e là, in un freddo alveo di rimebranze
sussurrate fuori dal tempo.
Self-Portrait ina Convex Mirror
Stanza 1
As Parmigianino did it, the right hand
Bigger than the head, thrust at the viewer
And swerving easily away, as though to protect
What it advertises. A few leaded panes, old beams,
Fur, pleated muslin, a coral ring run together
In a movement supporting the face, which swims
Toward and away like the hand
Except that it is in repose. It is what is
Sequestered. Vasari says, “Francesco one day set himself
To take his own portrait, looking at himself for that purpose
In a convex mirror, such as is used by barbers…
He accordingly caused a ball of wood to be made
By a turner, and having divided it in half and
Brought it to the size of the mirror, he set himself
With great art to copy all that he saw in the glass,”
Chiefly his reflection, of which the portrait
Is the reflection once removed.
The glass chose to reflect only what he saw
Which was enough for his purpose: his image
Glazed, embalmed, projected at a 180-degree angle.
The time of day or the density of the light
Adhering to the face keeps it
Lively and intact in a recurring wave
Of arrival. The soul establishes itself.
But how far can it swim out through the eyes
And still return safely to its nest? The surface
Of the mirror being convex, the distance increases
Significantly; that is, enough to make the point
That the soul is a captive, treated humanely, kept
In suspension, unable to advance much farther
Than your look as it intercepts the picture.
Pope Clement and his court were “stupefied”
By it, according to Vasari, and promised a commission
That never materialized. The soul has to stay where it is,
Even though restless, hearing raindrops at the pane,
The sighing of autumn leaves thrashed by the wind,
Longing to be free, outside, but it must stay
Posing in this place. It must move
As little as possible. This is what the portrait says.
But there is in that gaze a combination
Of tenderness, amusement and regret, so powerful
In its restraint that one cannot look for long.
The secret is too plain. The pity of it smarts,
Makes hot tears spurt: that the soul is not a soul,
Has no secret, is small, and it fits
Its hollow perfectly: its room, our moment of attention.
That is the tune but there are no words.
The words are only speculation
(From the Latin speculum, mirror):
They seek and cannot find the meaning of the music.
We see only postures of the dream,
Riders of the motion that swings the face
Into view under evening skies, with no
False disarray as proof of authenticity.
But it is life englobed.
One would like to stick one’s hand
Out of the globe, but its dimension,
What carries it, will not allow it.
No doubt it is this, not the reflex
To hide something, which makes the hand loom large
As it retreats slightly. There is no way
To build it flat like a section of wall:
It must join the segment of a circle,
Roving back to the body of which it seems
So unlikely a part, to fence in and shore up the face
On which the effort of this condition reads
Like a pinpoint of a smile, a spark
Or star one is not sure of having seen
As darkness resumes. A perverse light whose
Imperative of subtlety dooms in advance its
Conceit to light up: unimportant but meant.
Francesco, your hand is big enough
To wreck the sphere, and too big,
One would think, to weave delicate meshes
That only argue its further detention.
(Big, but not coarse, merely on another scale,
Like a dozing whale on the sea bottom
In relation to the tiny, self-important ship
On the surface.) But your eyes proclaim
That everything is surface. The surface is what’s there
And nothing can exist except what’s there.
There are no recesses in the room, only alcoves,
And the window doesn’t matter much, or that
Sliver of window or mirror on the right, even
As a gauge of the weather, which in French is
Le temps, the word for time, and which
Follows a course wherein changes are merely
Features of the whole. The whole is stable within
Instability, a globe like ours, resting
On a pedestal of vacuum, a ping-pong ball
Secure on its jet of water.
And just as there are no words for the surface, that is,
No words to say what it really is, that it is not
Superficial but a visible core, then there is
No way out of the problem of pathos vs. experience.
You will stay on, restive, serene in
Your gesture which is neither embrace nor warning
But which holds something of both in pure
Affirmation that doesn’t affirm anything.
Stanza 2
The balloon pops, the attention
Turns dully away. Clouds
In the puddle stir up into sawtoothed fragments.
I think of the friends
Who came to see me, of what yesterday
Was like. A peculiar slant
Of memory that intrudes on the dreaming model
In the silence of the studio as he considers
Lifting the pencil to the self-portrait.
How many people came and stayed a certain time,
Uttered light or dark speech that became part of you
Like light behind windblown fog and sand,
Filtered and influenced by it, until no part
Remains that is surely you. Those voices in the dusk
Have told you all and still the tale goes on
In the form of memories deposited in irregular
Clumps of crystals. Whose curved hand controls,
Francesco, the turning seasons and the thoughts
That peel off and fly away at breathless speeds
Like the last stubborn leaves ripped
From wet branches? I see in this only the chaos
Of your round mirror which organizes everything
Around the polestar of your eyes which are empty,
Know nothing, dream but reveal nothing.
I feel the carousel starting slowly
And going faster and faster: desk, papers, books,
Photographs of friends, the window and the trees
Merging in one neutral band that surrounds
Me on all sides, everywhere I look.
And I cannot explain the action of leveling,
Why it should all boil down to one
Uniform substance, a magma of interiors.
My guide in these matters is your self,
Firm, oblique, accepting everything with the same
Wraith of a smile, and as time speeds up so that it is soon
Much later, I can know only the straight way out,
The distance between us. Long ago
The strewn evidence meant something,
The small accidents and pleasures
Of the day as it moved gracelessly on,
A housewife doing chores. Impossible now
To restore those properties in the silver blur that is
The record of what you accomplished by sitting down
“With great art to copy all that you saw in the glass”
So as to perfect and rule out the extraneous
Forever. In the circle of your intentions certain spars
Remain that perpetuate the enchantment of self with self:
Eyebeams, muslin, coral. It doesn’t matter
Because these are things as they are today
Before one’s shadow ever grew
Out of the field into thoughts of tomorrow.
Stanza 3
Tomorrow is easy, but today is uncharted,
Desolate, reluctant as any landscape
To yield what are laws of perspective
After all only to the painter’s deep
Mistrust, a weak instrument though
Necessary. Of course some things
Are possible, it knows, but it doesn’t know
Which ones. Some day we will try
To do as many things as are possible
And perhaps we shall succeed at a handful
Of them, but this will not have anything
To do with what is promised today, our
Landscape sweeping out from us to disappear
On the horizon. Today enough of a cover burnishes
To keep the supposition of promises together
In one piece of surface, letting one ramble
Back home from them so that these
Even stronger possibilities can remain
Whole without being tested. Actually
The skin of the bubble-chamber’s as tough as
Reptile eggs; everything gets “programmed” there
In due course: more keeps getting included
Without adding to the sum, and just as one
Gets accustomed to a noise that
Kept one awake but now no longer does,
So the room contains this flow like an hourglass
Without varying in climate or quality
(Except perhaps to brighten bleakly and almost
Invisibly, in a focus sharpening toward death—more
Of this later). What should be the vacuum of a dream
Becomes continually replete as the source of dreams
Is being tapped so that this one dream
May wax, flourish like a cabbage rose,
Defying sumptuary laws, leaving us
To awake and try to begin living in what
Has now become a slum. Sydney Freedberg in his
Parmigianino says of it: “Realism in this portrait
No longer produces an objective truth, but a bizarria…
However its distortion does not create
A feeling of disharmony… The forms retain
A strong measure of ideal beauty,” because
Fed by our dreams, so inconsequential until one day
We notice the hole they left. Now their importance
If not their meaning is plain. They were to nourish
A dream which includes them all, as they are
Finally reversed in the accumulating mirror.
They seemed strange because we couldn’t actually see them.
And we realize this only at a point where they lapse
Like a wave breaking on a rock, giving up
Its shape in a gesture which expresses that shape.
The forms retain a strong measure of ideal beauty
As they forage in secret on our idea of distortion.
Why be unhappy with this arrangement, since
Dreams prolong us as they are absorbed?
Something like living occurs, a movement
Out of the dream into its codification.
Stanza 4
As I start to forget it
It presents its stereotype again
But it is an unfamiliar stereotype, the face
Riding at anchor, issued from hazards, soon
To accost others, “rather angel than man” (Vasari).
Perhaps an angel looks like everything
We have forgotten, I mean forgotten
Things that don’t seem familiar when
We meet them again, lost beyond telling,
Which were ours once. This would be the point
Of invading the privacy of this man who
“Dabbled in alchemy, but whose wish
Here was not to examine the subtleties of art
In a detached, scientific spirit: he wished through them
To impart the sense of novelty and amazement to the spectator”
(Freedberg). Later portraits such as the Uffizi
“Gentleman,” the Borghese “Young Prelate” and
The Naples “Antea” issue from Mannerist
Tensions, but here, as Freedberg points out,
The surprise, the tension are in the concept
Rather than its realization.
The consonance of the High Renaissance
Is present, though distorted by the mirror.
What is novel is the extreme care in rendering
The velleities of the rounded reflecting surface
(It is the first mirror portrait),
So that you could be fooled for a moment
Before you realize the reflection
Isn’t yours. You feel then like one of those
Hoffmann characters who have been deprived
Of a reflection, except that the whole of me
Is seen to be supplanted by the strict
Otherness of the painter in his
Other room. We have surprised him
At work, but no, he has surprised us
As he works. The picture is almost finished,
The surprise almost over, as when one looks out,
Startled by a snowfall which even now is
Ending in specks and sparkles of snow.
It happened while you were inside, asleep,
And there is no reason why you should have
Been awake for it, except that the day
Is ending and it will be hard for you
To get to sleep tonight, at least until late.
Stanza 5
The shadow of the city injects its own
Urgency: Rome where Francesco
Was at work during the Sack: his inventions
Amazed the soldiers who burst in on him;
They decided to spare his life, but he left soon after;
Vienna where the painting is today, where
I saw it with Pierre in the summer of 1959; New York
Where I am now, which is a logarithm
Of other cities. Our landscape
Is alive with filiations, shuttlings;
Business is carried on by look, gesture,
Hearsay. It is another life to the city,
The backing of the looking glass of the
Unidentified but precisely sketched studio. It wants
To siphon off the life of the studio, deflate
Its mapped space to enactments, island it.
That operation has been temporarily stalled
But something new is on the way, a new preciosity
In the wind. Can you stand it,
Francesco? Are you strong enough for it?
This wind brings what it knows not, is
Self-propelled, blind, has no notion
Of itself. It is inertia that once
Acknowledged saps all activity, secret or public:
Whispers of the word that can’t be understood
But can be felt, a chill, a blight
Moving outward along the capes and peninsulas
Of your nervures and so to the archipelagoes
And to the bathed, aired secrecy of the open sea.
This is its negative side. Its positive side is
Making you notice life and the stresses
That only seemed to go away, but now,
As this new mode questions, are seen to be
Hastening out of style. If they are to become classics
They must decide which side they are on.
Their reticence has undermined
The urban scenery, made its ambiguities
Look willful and tired, the games of an old man.
What we need now is this unlikely
Challenger pounding on the gates of an amazed
Castle. Your argument, Francesco,
Had begun to grow stale as no answer
Or answers were forthcoming. If it dissolves now
Into dust, that only means its time had come
Some time ago, but look now, and listen:
It may be that another life is stocked there
In recesses no one knew of; that it,
Not we, are the change; that we are in fact it
If we could get back to it, relive some of the way
It looked, turn our faces to the globe as it sets
And still be coming out all right:
Nerves normal, breath normal. Since it is a metaphor
Made to include us, we are a part of it and
Can live in it as in fact we have done,
Only leaving our minds bare for questioning
We now see will not take place at random
But in an orderly way that means to menace
Nobody—the normal way things are done,
Like the concentric growing up of days
Around a life: correctly, if you think about it.
Stanza 6
A breeze like the turning of a page
Brings back your face: the moment
Takes such a big bite out of the haze
Of pleasant intuition it comes after.
The locking into place is “death itself,”
As Berg said of a phrase in Mahler’s Ninth;
Or, to quote Imogen in Cymbeline, “There cannot
Be a pinch in death more sharp than this,” for,
Though only exercise or tactic, it carries
The momentum of a conviction that had been building.
Mere forgetfulness cannot remove it
Nor wishing bring it back, as long as it remains
The white precipitate of its dream
In the climate of sighs flung across our world,
A cloth over a birdcage. But it is certain that
What is beautiful seems so only in relation to a specific
Life, experienced or not, channeled into some form
Steeped in the nostalgia of a collective past.
The light sinks today with an enthusiasm
I have known elsewhere, and known why
It seemed meaningful, that others felt this way
Years ago. I go on consulting
This mirror that is no longer mine
For as much brisk vacancy as is to be
My portion this time. And the vase is always full
Because there is only just so much room
And it accommodates everything. The sample
One sees is not to be taken as
Merely that, but as everything as it
May be imagined outside time—not as a gesture
But as all, in the refined, assimilable state.
But what is this universe the porch of
As it veers in and out, back and forth,
Refusing to surround us and still the only
Thing we can see? Love once
Tipped the scales but now is shadowed, invisible,
Though mysteriously present, around somewhere.
But we know it cannot be sandwiched
Between two adjacent moments, that its windings
Lead nowhere except to further tributaries
And that these empty themselves into a vague
Sense of something that can never be known
Even though it seems likely that each of us
Knows what it is and is capable of
Communicating it to the other. But the look
Some wear as a sign makes one want to
Push forward ignoring the apparent
Naïveté of the attempt, not caring
That no one is listening, since the light
Has been lit once and for all in their eyes
And is present, unimpaired, a permanent anomaly,
Awake and silent. On the surface of it
There seems no special reason why that light
Should be focused by love, or why
The city falling with its beautiful suburbs
Into space always less clear, less defined,
Should read as the support of its progress,
The easel upon which the drama unfolded
To its own satisfaction and to the end
Of our dreaming, as we had never imagined
It would end, in worn daylight with the painted
Promise showing through as a gage, a bond.
This nondescript, never-to-be defined daytime is
The secret of where it takes place
And we can no longer return to the various
Conflicting statements gathered, lapses of memory
Of the principal witnesses. All we know
Is that we are a little early, that
Today has that special, lapidary
Todayness that the sunlight reproduces
Faithfully in casting twig-shadows on blithe
Sidewalks. No previous day would have been like this.
I used to think they were all alike,
That the present always looked the same to everybody
But this confusion drains away as one
Is always cresting into one’s present.
Yet the “poetic,” straw-colored space
Of the long corridor that leads back to the painting,
Its darkening opposite—is this
Some figment of “art,” not to be imagined
As real, let alone special? Hasn’t it too its lair
In the present we are always escaping from
And falling back into, as the waterwheel of days
Pursues its uneventful, even serene course?
I think it is trying to say it is today
And we must get out of it even as the public
Is pushing through the museum now so as to
Be out by closing time. You can’t live there.
The gray glaze of the past attacks all know-how:
Secrets of wash and finish that took a lifetime
To learn and are reduced to the status of
Black-and-white illustrations in a book where colorplates
Are rare. That is, all time
Reduces to no special time. No one
Alludes to the change; to do so might
Involve calling attention to oneself
Which would augment the dread of not getting out
Before having seen the whole collection
(Except for the sculptures in the basement:
They are where they belong).
Our time gets to be veiled, compromised
By the portrait’s will to endure. It hints at
Our own, which we were hoping to keep hidden.
We don’t need paintings or
Doggerel written by mature poets when
The explosion is so precise, so fine.
Is there any point even in acknowledging
The existence of all that? Does it
Exist? Certainly the leisure to
Indulge stately pastimes doesn’t,
Any more. Today has no margins, the event arrives
Flush with its edges, is of the same substance,
Indistinguishable. “Play” is something else;
It exists, in a society specifically
Organized as a demonstration of itself.
There is no other way, and those assholes
Who would confuse everything with their mirror games
Which seem to multiply stakes and possibilities, or
At least confuse issues by means of an investing
Aura that would corrode the architecture
Of the whole in a haze of suppressed mockery,
Are beside the point. They are out of the game,
Which doesn’t exist until they are out of it.
It seems like a very hostile universe
But as the principle of each individual thing is
Hostile to, exists at the expense of all the others
As philosophers have often pointed out, at least
This thing, the mute, undivided present,
Has the justification of logic, which
In this instance isn’t a bad thing
Or wouldn’t be, if the way of telling
Didn’t somehow intrude, twisting the end result
Into a caricature of itself. This always
Happens, as in the game where
A whispered phrase passed around the room
Ends up as something completely different.
It is the principle that makes works of art so unlike
What the artist intended. Often he finds
He has omitted the thing he started out to say
In the first place. Seduced by flowers,
Explicit pleasures, he blames himself (though
Secretly satisfied with the result), imagining
He had a say in the matter and exercised
An option of which he was hardly conscious,
Unaware that necessity circumvents such resolutions
So as to create something new
For itself, that there is no other way,
That the history of creation proceeds according to
Stringent laws, and that things
Do get done in this way, but never the things
We set out to accomplish and wanted so desperately
To see come into being. Parmigianino
Must have realized this as he worked at his
Life-obstructing task. One is forced to read
The perfectly plausible accomplishment of a purpose
Into the smooth, perhaps even bland (but so
Enigmatic) finish. Is there anything
To be serious about beyond this otherness
That gets included in the most ordinary
Forms of daily activity, changing everything
Slightly and profoundly, and tearing the matter
Of creation, any creation, not just artistic creation
Out of our hands, to install it on some monstrous, near
Peak, too close to ignore, too far
For one to intervene? This otherness, this
“Not-being-us” is all there is to look at
In the mirror, though no one can say
How it came to be this way. A ship
Flying unknown colors has entered the harbor.
You are allowing extraneous matters
To break up your day, cloud the focus
Of the crystal ball. Its scene drifts away
Like vapor scattered on the wind. The fertile
Thought-associations that until now came
So easily, appear no more, or rarely. Their
Colorings are less intense, washed out
By autumn rains and winds, spoiled, muddied,
Given back to you because they are worthless.
Yet we are such creatures of habit that their
Implications are still around en permanence, confusing
Issues. To be serious only about sex
Is perhaps one way, but the sands are hissing
As they approach the beginning of the big slide
Into what happened. This past
Is now here: the painter’s
Reflected face, in which we linger, receiving
Dreams and inspirations on an unassigned
Frequency, but the hues have turned metallic,
The curves and edges are not so rich. Each person
Has one big theory to explain the universe
But it doesn’t tell the whole story
And in the end it is what is outside him
That matters, to him and especially to us
Who have been given no help whatever
In decoding our own man-size quotient and must rely
On second-hand knowledge. Yet I know
That no one else’s taste is going to be
Any help, and might as well be ignored.
Once it seemed so perfect—gloss on the fine
Freckled skin, lips moistened as though about to part
Releasing speech, and the familiar look
Of clothes and furniture that one forgets.
This could have been our paradise: exotic
Refuge within an exhausted world, but that wasn’t
In the cards, because it couldn’t have been
The point. Aping naturalness may be the first step
Toward achieving an inner calm
But it is the first step only, and often
Remains a frozen gesture of welcome etched
On the air materializing behind it,
A convention. And we have really
No time for these, except to use them
For kindling. The sooner they are burnt up
The better for the roles we have to play.
Therefore I beseech you, withdraw that hand,
Offer it no longer as shield or greeting,
The shield of a greeting, Francesco:
There is room for one bullet in the chamber:
Our looking through the wrong end
Of the telescope as you fall back at a speed
Faster than that of light to flatten ultimately
Among the features of the room, an invitation
Never mailed, the “it was all a dream”
Syndrome, though the “all” tells tersely
Enough how it wasn’t. Its existence
Was real, though troubled, and the ache
Of this waking dream can never drown out
The diagram still sketched on the wind,
Chosen, meant for me and materialized
In the disguising radiance of my room.
We have seen the city; it is the gibbous
Mirrored eye of an insect. All things happen
On its balcony and are resumed within,
But the action is the cold, syrupy flow
Of a pageant. One feels too confined,
Sifting the April sunlight for clues,
In the mere stillness of the ease of its
Parameter. The hand holds no chalk
And each part of the whole falls off
And cannot know it knew, except
Here and there, in cold pockets
Of remembrance, whispers out of time.
2 risposte a "John Ashbery – Autoritratto in uno specchio convesso. Traduzione di Giancarlo Locarno"
è vero, le parole sono solo riflessione e speculazione, non potranno mai trovare il significato della musica, ma possono inventarne altri. non abbiamo parole per dire cosa è la realtà, ma è sempre possibile raccontarla, scriverne in modo ordinato e leggerci il caos…
e in ultima analisi, anche la distorsione è una forma di armonia (forse la più complessa/difficile in assoluto)…
: ))
il pensiero, come l’oggi non ha margini, gli input sensoriali arrivano, traboccano dai bordi: sono fatti (siamo fatti) della stessa sostanza (pensiero di pensiero), ergo indistinguibili.
ecco perché “Il Gioco” non è altrove, o almeno, non solo altrove ma in ogni dove.
probabile dunque che la verità si possa leggere solo guardando il riflesso del mondo nell’occhio composto di un insetto (Kafka docet). Ashbery ci avvolge intorno una fitta nebbia di parole, che, sebbene eleganti, a tratti sperdono la via invece di cacciare il dito nel nucleo polposo della piaga. forse gli manca il codice ascii giusto, ecco, sì, forse gli manca l’asciintila…
è sempre un vero godimento fare due chiacchiere coi tuoi post su Neobar. se passi da Stienta, ci sediamo mezz’ora a bere un Grechetto di Todi all’ombra della quercia, fronte orto.
: )
Giancarlo, questo lavoro è splendido. Quante passioni può smuovere un poeta come John Ashbery! E quanta è la passione di Ashbery per l’arte italiana! Questa ekphrasis, “autoritratto entro uno specchio convesso” è un magnifico lavoro poetico, di forma tradizionale, ma con un linguaggio semplice, comprensibile come usano spesso i poeti americani contemporanei. Una profondità e ricchezza di spunti che hanno fatto inchinare persino uno un po’ arcigno come il prof. Harold Bloom!
Mi sono voluta godere questa poesia per intero attraverso la calda voce dell’autore stesso (e ci si potrebbe studiare sopra un’intera settimana talmente è enciclopedica).
Ho voluto confrontare la tua traduzione con quelle di Busi e Abeni (trovate in rete). Trovo che sia un ottimo esercizio, sicuramente ti avrà arricchito moltissimo. Tra l’altro hai tradotto, traslato, riprodotto sia Ashbery che il Parmigianino in un rimando negli specchi che si è ulteriormente potenziato. E così, ti ho potuto scorgere chino con la matita in mano in questi versi:
Penso agli amici che verranno a trovarmi, a cos’era ieri
a cosa sembrava. Una peculiare inclinazione
della memoria che si intromette nel modello in dormiveglia
nel silenzio dello studio appena si risolve a vagliare
se sollevare la matita per continuare l’autoritratto.
Tante persone vengono, rimangono un certo tempo
proclamano parole luminose o buie che diventano parte di te
come un lumino al di là delle nebbie e delle sabbie scagliate dai venti,
così filtrate e compenetrate da essi, finché non rimane più nulla
di sicuramente tuo. (trad. Giancarlo Locarno)
è vero, le parole sono solo riflessione e speculazione, non potranno mai trovare il significato della musica, ma possono inventarne altri. non abbiamo parole per dire cosa è la realtà, ma è sempre possibile raccontarla, scriverne in modo ordinato e leggerci il caos…
e in ultima analisi, anche la distorsione è una forma di armonia (forse la più complessa/difficile in assoluto)…
: ))
il pensiero, come l’oggi non ha margini, gli input sensoriali arrivano, traboccano dai bordi: sono fatti (siamo fatti) della stessa sostanza (pensiero di pensiero), ergo indistinguibili.
ecco perché “Il Gioco” non è altrove, o almeno, non solo altrove ma in ogni dove.
probabile dunque che la verità si possa leggere solo guardando il riflesso del mondo nell’occhio composto di un insetto (Kafka docet). Ashbery ci avvolge intorno una fitta nebbia di parole, che, sebbene eleganti, a tratti sperdono la via invece di cacciare il dito nel nucleo polposo della piaga. forse gli manca il codice ascii giusto, ecco, sì, forse gli manca l’asciintila…
è sempre un vero godimento fare due chiacchiere coi tuoi post su Neobar. se passi da Stienta, ci sediamo mezz’ora a bere un Grechetto di Todi all’ombra della quercia, fronte orto.
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Giancarlo, questo lavoro è splendido. Quante passioni può smuovere un poeta come John Ashbery! E quanta è la passione di Ashbery per l’arte italiana! Questa ekphrasis, “autoritratto entro uno specchio convesso” è un magnifico lavoro poetico, di forma tradizionale, ma con un linguaggio semplice, comprensibile come usano spesso i poeti americani contemporanei. Una profondità e ricchezza di spunti che hanno fatto inchinare persino uno un po’ arcigno come il prof. Harold Bloom!
Mi sono voluta godere questa poesia per intero attraverso la calda voce dell’autore stesso (e ci si potrebbe studiare sopra un’intera settimana talmente è enciclopedica).
Ho voluto confrontare la tua traduzione con quelle di Busi e Abeni (trovate in rete). Trovo che sia un ottimo esercizio, sicuramente ti avrà arricchito moltissimo. Tra l’altro hai tradotto, traslato, riprodotto sia Ashbery che il Parmigianino in un rimando negli specchi che si è ulteriormente potenziato. E così, ti ho potuto scorgere chino con la matita in mano in questi versi:
Penso agli amici che verranno a trovarmi, a cos’era ieri
a cosa sembrava. Una peculiare inclinazione
della memoria che si intromette nel modello in dormiveglia
nel silenzio dello studio appena si risolve a vagliare
se sollevare la matita per continuare l’autoritratto.
Tante persone vengono, rimangono un certo tempo
proclamano parole luminose o buie che diventano parte di te
come un lumino al di là delle nebbie e delle sabbie scagliate dai venti,
così filtrate e compenetrate da essi, finché non rimane più nulla
di sicuramente tuo. (trad. Giancarlo Locarno)
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