Roberto Minardi – Concerto per l’inizio del secolo (Giancarlo Locarno)

La prima poesia del volume,  Il Tema della fine,  parte da un inizio lontano, “non saremmo dovuti nascere”, non avremmo dovuto attraversare un milione d’anni di evoluzione per poi vanificarla riducendoci allo “scambio vicendevole di elettrodomestici”. “Non dovremmo essere là, dove non siamo”, invece ci siamo, nell’era dell’Antropocene, siamo così invasivi da essere ovunque e il mondo sopporta tutto il nostro peso.

Da questo dato di fatto si sviluppa un discorso poetico che procede su due strade intersecantesi, da una parte la  riprensione dello scarso senso di  responsabilità personale che ci contraddistingue e ci impedisce di arrivare ad una riformulazione dell’etica nel senso di una sua espansione,  l’altra strada è quella di una critica che si dilata fino ad abbracciare tutto il percorso filogenetico umano.

Già in questa prima poesia sembrano uscire dall’acqua e strisciare faticosamente fuori dalla fanghiglia granchi, cavallette e tutti gli animali, che poco a poco diventeranno dolorosi protagonisti. Questi animali saranno uccisi e mangiati, si presentano alla coscienza del poeta come il perturbante (Das Unheimliche) del saggio omonimo di  Freud. Si tratta di presenze che ci sono familiari, ci accompagnano nella vita con la loro vicinanza. Il fatto che ci sono fratelli, e che in fondo noi siamo strutturati come loro, è stato rimosso, ora sono considerati semplici ingranaggi di un meccanismo, in una delle poesie successive c’è un’immagine che mi ha molto colpito, e che simbolizza questo processo, “il pulcino sul nastro trasportatore”.

Quello che si pensava rimosso definitivamente, ritorna angoscioso nella coscienza del poeta come appunto il perturbante, questa coscienza dell’uguaglianza sostanziale tra uomini e animali toglie la tranquillità, cambia la visione della stessa vita quotidiana, mantiene fisso lo sguardo su una personale ecologia culturale. L’uccisione del gallo è il componimento più rappresentativo a questo proposito, lo spacco violento dell’astice da parte del proprietario di porcili è un’immagine diretta di questa  banalità del male applicata alla sorte degli animali,  mi richiama alla mente la cena dei “manichini ossobuchivori”  alla fine della Cognizione del dolore di Gadda e la volgarità della cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio,  mangiare è una operazione meccanica, non una necessità ma uno status symbol, i denti come una ruspa cieca setacciano la terra per divorare i piccoli esseri che la popolano, il sangue gocciola. Il picchio testimone batte le campane a morto, non bisogna dimenticare che anche Trimalcione mangiando era perseguitato dal pensiero della morte.

Si avverte l’urgenza di un’epifania, il manifestarsi di un’epica delle piccole cose che non hanno storia, che al massimo possono manifestare sul palcoscenico del mondo solo una storia naturale.

Aggrappato alla poesia esce dalla terra l’inconscio della storia.

I “sognati socialismi” hanno reso protagonisti almeno per qualche decennio chi precedentemente non contava proprio niente, gli operai e i contadini, l’ecocritica di queste poesie sembra considerare possibili protagonisti di una rivoluzione sognata anche il riconoscimento dei diritti alle altre creature, ai “sereni animali che avvicinano a Dio” come diceva Saba.

L’occhio poetico si posa poi anche  sugli uomini, sugli ultimi, quelli considerati cose, da sfruttare proprio come gli animali.

Se devo cercare un antecedente, o meglio una sensibilità fraterna a questa poesia, la trovo in Luigi Di Ruscio, nelle sue Poesie operaie, li accomuna anche una lingua diretta e originale. Qui opera una lingua che non ha bisogno di un lessico ricercato, sono poche le parole inconsuete, è ricca in sé per l’uso sapiente della morfologia e della sintassi, e per l’uso armonico di tutti i registri, anche con i vocaboli più forti o triviali compone belle immagini che hanno il dono della naturalezza.

In Frammenti dell’operaio, si trova l’immagine che ho già citato, ma che ripeto perché mi ha colpito in modo particolare, quella del pulcino che se ne va sul nastro trasportatore, una creatura dai bisogni ancestrali geometrizzata per motivi di produzione e di profitto. Questo operaio, che fatica a raccogliere i frammenti della propria giornata in una visione integra, sembra reso insensibile dalla durezza del vivere e incapace di riconoscere quella concretezza di dolore che è anche la propria. Stenta a riconoscere la natività come speranza, il figlio è una bocca da sfamare, nel pensiero stanco e alienato è sullo stesso piano del sughetto e del parabrezza ghiacciato.

Anche Lo spettatore guarda il suo mondo chiuso dal contorno di un televisore, cancella quello che esce dal quadrato visuale, non ci sono punti di fuga (elimina i pettirossi dai punti di fuga). L’unico abisso è il suo stomaco.

La sua illuminazione è lo scoprire che il “bisogno” del cane e quello suo esistenziale in quanto spettatore dello spettacolo del mondo, coincidono.

Per queste  figure di disperati, anche loro senza storia, non sorge il sol dell’avvenire, questo mondo composto di ciarpame  di plastica è qualcosa di cui liberarsi, rifiuti su rifiuti, il rito quotidiano dello scartare, senza più riuscire a dare “la carezza articolata della bimba all’altra bimba.”

Che le gocce di inferno distillato abbiano almeno un valore didattico, e in fondo filantropico di apertura alare, è una delle richieste dell’Invocazione di base.

Nel cammino verso una desiderata illuminazione cominciano però a differenziarsi le figure dell’uomo buono e dell’orda, il succhiatore di prugne e i divoratori del manzo (Il magazziniere cristiano).

In questo percorso di ricerca si pongono anche le visioni oniriche contenute nella serie delle anticipazioni, nella prima, la “donna nera” mentre sta per essere fecondata, subisce una levitazione, anche nella quarta il protagonista fluttua a mezz’aria, e questo mi fa pensare alla  levitazione di Laura Betti, nei panni della servetta Emilia nel film Teorema di Pasolini, sollevarsi in volo come segno dell’irrompere del sacro dove meno ce lo si aspetta, e che scompagina le carte, permettendo di vedere le cose dall’alto in uno stato di incanto. Un elevarsi ma senza volare con le ali chiuse che forse si apriranno alla fine.

Nel sogno dell’ Anticipazione 7 si manifesta la saggezza, nel piccolo Roberto, perché  è al di qua della scena, cioè in qualche modo prima della scena, non oltre, e non dentro, vede quello che accade con il distacco di uno spettatore levitante su un’opera teatrale.

Resta ancora da individuare in cosa consiste questo sacro.

Quale sacralità  può salvare il lavagista con il passaporto sottratto o il poeta in prigione che “si dispera per ricordare il profumo di Maria” ( che forse è la stessa Maria della canzone di Dalla).  “Segui fra tutti il più claudicante, è il consiglio, segui  il  matto che  “professò come curvava sotto il peso del crocefisso”. Il sacro è una questione che rimane aperta e problematica.

C’è una profonda connessione tra religione,  maternità e paternità, Dio è padre e Maria è madre, e l’avere un figlio conduce al meditato bisogno di una svolta che sarà anche spirituale, come viene espresso nelle poesie della serie Motivi per una nuova vita, la quale si può intendere contemporaneamente in due maniere diverse: la nuova vita che si vorrebbe intraprendere e la nuova vita che apparirà nel mondo, il figlio che sta per nascere.

Questo figlio è seguito fin dall’inizio, “dalle fitte vulcaniche e dal moto magmatico del ventre” (Motivo per una nuova vita 1).

“La sommossa del ventre cambia le cose, la terra ha tremato, niente sarà più come prima”(Motivo per una nuova vita 3).

Nella Visione della muratura, l’attesa della nascita assume una dimensione quasi cosmica di un natale allargato a tutte le creature viventi, la cagna incinta da inizio al secolo e al millennio e alle future generazioni.

Nel sogno di Notturno senza freno c’è poi come un immergersi nel femminino forse per rivivere la propria nascita.

La speranza ma anche il timore di come crescerà questo figlio, viene espressa nel Contrappunto 4, a me ricorda il Sanguineti della poesia dedicata al figlio che cominciava a frequentare la scuola: “Ti attende il filo spinato, la vespa, la vipera il nickel bianco e lucente… “

Qui invece quello che l’attende è  “l’azionista e il culto del fatuo, ma noi non cantiamo il capitale, ci nutriamo anche senza tutto questo. Chissà se sarai come noi”.

L’ultimo poemetto Materia per aperture alari, secondo la mia lettura, consente di avvicinare e di percepire con un po’più di precisione l’argomento lasciato ancora in sospeso: cos’è il sacro per il poeta?

Vengo dalle chiese, dalle pale d’altare” diceva l’eretico Pasolini in bilico tra un dopostoria e la tradizione.

Vengo dal cardellino ripete più volte Minardi, dal cardellino in gabbia, dal suo anelito di libertà che dovette soccombere alla tempesta. In bilico tra stato di natura e acciaio della gabbia di un progresso che in realtà è regressione. Siamo arrivati al punto importante, nella poesia  Delle rime sparse per Marlon, si dice che “Dio è la vita secondo Marlon, che è insegnante e nello stesso tempo allievo, “incapace di coltivare nemici”, allora:

l’adesione alla vita è illuminazione e immersione in Dio.

Non bisogna andare lontano per aprire le ali:

“la rivelazione che v’offro è sotto gli occhi,

sono la vita il bastardino e il sasso”

Riconoscersi come frammento di tutte le cose che fanno parte dell’esistente. L’illuminazione è allora immergersi nel mondo e condurre la propria vita, come Krishna insegnò al principe Arjuna nella Bhagavad Gita, priva di egoismo ma anche di aspettative, equanime  senza farsi coinvolgere ne dalla  vittoria ne dalla sconfitta.

Le ali potranno così aprirsi.

e io giunto alla cima capii che ero voi.

Giancarlo Locarno

Da Concerto per l’inizio del secolo


Tema della fine 

non saremmo dovuti nascere 
né avremmo dovuto lanciare 
la bottiglia vacante 
amarne la percussione al rotolare sul bitume 

saremmo dovuti rimanere cani con le lingue lunghe 
ragni o servitori di tè, tiratori di lenze 
in una maniera o nell’altra, guardiani 
avremmo dovuto prestare l’attenzione tutta 
ai granchi che sollevano le conchiglie e s’affacciano 
studiarli per lunghi e interminabili mesi 

ci si aspettava l’avanguardia invece 
gonfiamo il centro commerciale 
nostro adultero Paese dei Balocchi 
faremmo meglio a non pensare al figlio pinocchiesco 
lucignolesco o peggio adorato dalle maestre 

il bacio privo di ragione, perfetta scultura a più labbra 
ce lo saremmo dovuti dare prima dello scoppio 
lassù, e volare fianco a fianco 
mano nella mano 
come in pura e svenevole ballata 
fino a atterrare sulle crepe della salata terra 
dove attendeva il formicolio 

non saremmo dovuti avviarci verso l’oceano 
se tutto si conclude fra la battigia e lo scoglio che sbuca 
non era questo l’orizzonte 
non dovevamo infinocchiare le menti
con la sacralità delle tiritere musicate 
della parola secca, in croce 
della passiva lode dei cieli 

le ere non sarebbero dovute trascorrere 
per giungere allo scambio vicendevole di elettrodomestici 
gemelli per polsini 
visioni fiorettate 
il genitore doveva tirarci in mezzo al campo 
perché imparassimo la radice, lo stelo che fa capolino, il fragile ramo 
e l’incanalata acqua 

pace ai loro diavoli 
ai loro gas e i loro grassi 
non dovevamo far sì che medici e armati 
godessero di ammirazione sconfinata 
certamente più dignità ci si sarebbe aspettati 
da una specie tanto fotterina, che tutte le studia 
fuorché scordarsi di essere in vita 
genìa dedita a faticare nei mattatoi 
a usare tanto la cavalletta quanto l’oca 
per le digestioni cattive 
si doveva essere più feroci 
morsicare la propria progenie 
cibarsene in porzioni mezzo crude 
o rimanere seduti e inermi sotto un albero solenne 
e l’abbiamo compiuto, tutto questo 
oltre a finire coll’abbigliarsi 
e edificare ripari 

avremmo dovuto imparare 
a non comprendere un’acca 
a rimanere in posa da autentici feti 
scorgere il male salvifico nel bene 
tutti i sangui e gli spermi e le sabbie 
avremmo dovuto mischiare 
e non preoccuparci delle nostre pelli frivole 
essere punti, pungere 

non dovremmo essere là, dove non siamo 
riposare i pollici e gli indici sulla guancia 
per valutare le vie di mezzo 
ma ammutolire davanti alla burrasca, urlare 
massacrati dagli schizzi della fanghiglia 
non azzerare la foga 
a colpi di famiglia, per mal di testa 
per insufficienza di glorie 

dovevamo essere partoriti di nuovo 
divenire il più fidato nemico di noi stessi 
stupirci per l’ultimo lembo di sole che vela la rena, piangere.



Frammenti dell’operaio 

nel lattice dei palmi 
raccoglie dei pulcini e li colloca 
sul nastro che trasporta all’altra stanza 
le vene sugli zigomi si arrossano 
è sera quando si strofina il viso 
con forza, con saponi profumati 
dal piatto che lo attende si alza il fumo 
e una creatura neonata 
rifiuta la poppata che la donna 
si ostina ad imboccargli, sbava un liquido 
giallognolo, pastoso e scoppia in lacrime 
nel fondo c’è una voce di metallo 
che parla delle piogge che cadranno 
dei venti che è possibile che spingano 
difficile è isolare la notizia 
in quegli istanti in cui il pianto torna 
a farsi suono acuto e vi si aggiunge 
la voce della madre 
che prova a persuadere con moine 
ritorna col cervello a stamane 
il parabrezza era ghiacciato 
e c’è voluto tempo per spannarlo 
domani se ne andrà con la corriera 
non sa se è sonnolenza 
o voglia di sparire e stacca 
un altro tozzo di pane 
lo bagna nel sughetto che è rimasto 
in fondo al piatto



L’uccisione del gallo 

danaroso proprietario di porcili e punti vendita, inghiotti 
l’astice di cui spacchi le chele con delicatezza e a tua figlia 
imbocchi un segmento di polpa affinché ne succhi la crudezza 

nei palmi miei è il pane integrale, cosicché niente può distinguerci 
entrambi impegnati a saziarci, è a me che tocca sottoscrivere l’invidia 
per l’involontario equilibrista che deambula sulla cornice del muro 
per la foglia puntellata di giallo e di rosso, molto prossima al suolo 
per la forgia della sedia sulla quale ristoro le articolazioni 

il fumo è assente in giardino, l’aria è guastata dal puzzo di assassinio 
dentro la bacinella azzurra il sangue gocciola e scurisce 
e ancora pietre divise d’amore e d’accordo con le esigenze 
e ramoscelli a forma di onde, decapitati tronchi dal sole riarsi 

serba i tuoi auguri, la sconcezza del tuo affermare, per altra occasione 
udiamo il picchio che martella a ritmo e io è qui che metto il punto.




Da  “Materia per aperture alari”

…
Era il comico più grande della terra; occhi lessi, due gocce. 
Non conoscendo l’inglese, taceva, indicava la fine 
colla mano, aggiungeva sorrisi che erano vera cortesia. 
L’imbranataggine è il ritmo più superbo e gli apparteneva, 
era un uomo dalla giacca consunta, elegante, ci commosse... 
Ancora bambino dice “sono felice che è il tuo compleanno” 
e ci fa ridere, ci fa scoprire che l’amore è un punto esatto. 
Stando agli evangelisti il Cristo Messia non rise mai, e io 
giunto alla cima capii che ero voi: dal bastardino al masso, 
la nespola ammaccata, il fil di ferro, la donnola frenetica. 
E ridiscesi. Nessuno abbatterà la fede nello slancio, 
le piume vellutate, il trillo che proviene dalle barre.


Roberto Minardi

Roberto Minardi (Ragusa, 1977). Nel 1999 si è trasferito in Inghilterra, a Londra, dove risiede tuttora lavorando come insegnante di lingue. Dal 2005 al 2006 ha vissuto a Panama, dove ha tradotto poeti locali e pubblicato la sua prima plaquette in versione bilingue. Nel 2007 la Archilibri di Comiso (RG) ha pubblicato Note dallo sterno. Nel 2014 viene premiato con la pubblicazione della silloge Il bello del presente dalla casa editrice Tapirulan. Nel 2015 esce La città che c’entra (Zona Contemporanea), silloge che è stata segnalata all’edizione del 2016 del Premio “Montano”. A questa raccolta è liberamente ispirato il mediometraggio The city within, realizzato in collaborazione con il regista Tomaso Aramini. È autore egli stesso di alcuni video sperimentali. Oltre che in volume, suoi testi sono apparsi su riviste letterarie (“Tratti”, “Semicerchio”, “La Mosca di Milano”, “deSidera”), online (“Atti impuri”, “Poesia 2.0”, “Carteggi Letterari”, “Atelier”), su antologie di concorsi (Poesie al mondo, Tapirulan, Premio Anna Osti) e sull’archivio multimediale “Phonodia” dell’università Ca’ Foscari di Venezia. Sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo e turco. È stato co-fondatore del progetto poetico “dopotutto [d|t] (una poesia italiana fuori)”.


Una risposta a "Roberto Minardi – Concerto per l’inizio del secolo (Giancarlo Locarno)"

  1. “frammenti dell’operaio” è potentissima.
    molto (troppo) verbosa la prima (farcita di dovremmo/non dovremmo/saremmo dovuti)… manca un poco – a mio umile sentire – di “immediatezza poetica”, anche se il passaggio “ci si aspettava l’avanguardia invece / gonfiamo il centro commerciale” vale da solo la lettura.
    concettuale e riuscita l’ultima “materia per aperture alari”, dove al Cristo/Messia che non rise mai (stando agli evangelisti) fa da contrappunto lo spettacolare “ridi/scesi” dell’io poetico che dopo aver raggiunto la cima trova la via, la verità e la vita nella meta immanente additata dalla “nespola ammaccata”.
    davvero profonda e centrata, infine, la tua presentazione/commento alle opere dell’autore.
    lo vedi, allora, che in fondo siamo in buona sintonia?
    : ))

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