Marco Miconi  – Sabbia per struzzi (Patty Schneider e Giancarlo Locarno)

Fotogramma del film Konferentsya di Ivan Tverdovskly

È mitologico lo sfondo sul quale gli eroi delle poesie di Marco Miconi si muovono. Personaggi dell’hinterland del mondo, un po’ pasoliniani ma alla milanese. Nessuno accorre né a salvare e nemmeno alla Salvezza. Il viaggio dell’eroe Valtour, in crisi compulsiva da internet (“la crisi che spinge a partire” in À la plage, à la plage), in cerca di godimenti in leggerezza, virtuali o reali. Desiderio di conformarsi alle circostanze per esorcizzare il diritto di cittadinanza dell’alieno dentro (“io che contro natura sono astemio di poesia” À la plage, à la plage), desiderio di compiacere con un “noi” pieno di pathos, inclusivo che umanamente si fa branco per sopravvivere. Si sentono gli odori in questi poemetti e pare di poterli toccare talmente sono vividi. C’è anche il classico grigio milano dell’appiattimento, del mono-pensiero, nella conta dei morti, nel gelo, nell’indifferenza. In “Milano” non prevale la nostalgia dei balconi con ringhiere in ferro battuto con i fiori, ma piuttosto una constatazione che ciò che si poteva fare non è stato fatto.

Amari pattern sono anche le grandi tragedie, dall’orrore di Guantanamo perpetrato dagli “eroi buoni”, il sottile piacere di dominare (“Anche noi/ avremmo potuto essere/ uomini in un canile/ piccoli Gulliver/… pastori sanguinari/ controversi turisti). Siamo turisti passivi, freddi spettatori delle peggiori crudeltà come in “Trailer” annuncio appunto di orrori peggiori di quelli visti (sempre attraverso uno specchio o schermo, o scherno) del teatro Dubrovka a Mosca nel lontanissimo 2002. Allucinante e lucida la descrizione in cui il poeta non è più veggente ma solo pieno di buon senso. Non è poesia civile, non sono denunce, non sono j’accuse per il semplice fatto che è assente la voce o l’urlo – sono finiti i tempi di Allen Ginzberg e compagni – ma queste poesie sono forgiate con strumenti di precisione, grimaldelli che scardinano e non smuovono (volutamente). Le macerie rimangono e non c’è poesia che possa consolare o esortare. Miconi con le sue poesie fa un passo indietro, non vuole portare a termine il viaggio, resta sempre in alto mare non ci sta (secondo me) a prestarsi a correnti letterarie o stili. Avulso com’è da facili stilemi ricorre però a artifici come il patchwork, il kitsch, il modernismo, il lirismo. La sua personale visione poetica resta più che mai attuale, in perfetto equilibro tra sincerità, libertà e carattere. (“perché la poesia può essere/ sabbia per struzzi/ dove cacciare la testa/ aspettando lo scoppio/ Ma la vita? “ Trailer).

Un poeta che rifiuta tutto ciò che esso stesso rappresenta (nessuna smania di condividere, di pubblicare a tutti i costi), un non poeta e quindi, per definizione logica, un poeta.

Patty Schneider

Cosa vogliono da noi le immagini del trailer? Azzardo, forse quelle del film Konferentsiya (Conference) di I. Tverdovskly, che ci fanno rivivere i fatti della sala Dubrovka a Mosca, dove i separatisti ceceni sequestrarono 800 persone, e che si risolse con una strage. Una poesia che è un  annidamento ricorsivo di pensieri e di immagini, guardare in un cinema da spettatore la fine degli spettatori. Salti tra realtà e immagini di un’altra realtà, un montaggio di spezzoni di oggettività e sequenze di visioni. Un finto Godot salvifico non aiuterà loro e nemmeno lo spettatore. La fine di un film non è come la loro fine, anche se le due cose si mescolano, alla fine di un film ci si trova come alla fine di un sogno. Le immagini vogliono suscitare in chi le guarda il desiderio di qualcosa che poi non possono dargli.

Milano è una montagna di terra e ruderi, e freddo e morti sul lavoro, anche le parole poche e altrettanto fredde si portano via con la ruspa. Noi è un altrove richiama la rimbaldiana je suis un autre, una dislocazione psicologica, in questo caso l’io è assimilato al noi fraterno in una dislocazione  che è un disconoscimento collettivo e sociale.

Sulla via per Guantanamo  è un piano sequenza di cinque amici all’uscita del cinema le immagini negli occhi, ancora, ma cosa vogliono le immagini da noi? Riempirci d’immondizia  e di menzogna, fornirci una quotidiana dose di sabbia per struzzi? Rendere malinconica questa movida e il ritorno nella periferia come pesci spiaggiati dalla risacca, ci salverà il reciproco e ignaro calore  dalla deriva verso una comune Lorenteggio-Guantanamo.

A Eliopoli tutti i paradossi e il grottesco del posticcio turistico, come nella Costa Smeralda, l’ottocentesco palazzo rotante in stile indù così fuori luogo di fronte al cammello,  come lo è anche  vedere che tutto si compra e tutto si vende, e che  anche lo speed-date con la democrazia può rendere ciechi verso le innumerevoli folle di poveracci che lì abbondano, come d’altronde ovunque.

À la plage, à la plage, arrivano le ore felici, con un po’ più di ironia che scioglie la malinconia di un male di vivere connaturato all’esserci nel mondo. Tre passi in progressione ci leggo, il tastierare col mondo e la finale noia tecnologica che ci spinge al viaggio vero.  L’etnicità, un po’ così, di via Palmanova, uno stradone insoddisfacente che divide Crescenzago da Milano, quindi il piano b della Grecia. Mi ha colpito la passeggiata nella necropoli di Kerameikos, lì sì che si dovrebbe guardare dove si mettono i piedi per non svegliare le cose ctonie, morte e rimosse che potrebbero tornare. Siamo nella patria del pensiero che taglia un capello in quattro, oltrepassiamole allora le soglie e le foglie di fico che ci nascondono.

Giancarlo Locarno

Trailer
          
Noi cosa vedremo.

Se fosse ancora immaginario
e non immagine
(il sentore di marcio
è puro odorama:
tecnica e suggestione)
potremmo inscenare l'orrore.
Due tribù. In guerra.
Invece noi guardiamo
brandelli di battute
cospirazioni molli.

Egli attende illuminazioni
mentre insacca le spalle e scruta  l'orizzonte.
La casa alle sue spalle
brucia e brucia e brucia.
Ma non possiede veggenza
e la trama si frantuma in cerchi.
Allora Godot cede allo scandalo,
tradendo il ruolo
sceglie un sepolcro da cui uscire volando
per compensare ogni spavento
e viene a salvare.

Io faccio un passo avanti
scomparsa a vista
(un' unghia sfiora appena
la natura ringhiosa del reale).
Poi mi scanso
in qualche rappresentazione.

Loro sulle  poltrone della sala Dubrovka
ammassati (ammazzati).
Lei o lui o entrambi, riversi
ridotti a pronomi ed abiti
sono irrappresentabili
(soccorrono infatti i sottotitoli).

Scrivono.
Un gesto di consolazione
o un rosario che tutto passi
alla prossima visione
(il dolore, schivo,
resta rannicchiato dietro lo schermo)

Un boato stereofonico.
E' scena da rewind
tra un ago e il suo filo, perso.
Voi avreste sentito sussultare la carne
proprio in quel punto del ventre
dove i lembi non collimano più 
trucco di cicatrice 
che resta taglio.

Campo lungo. E' effetto:
Tu rimani immobile in platea.
Aspetterai la fine?  Verrai a vedere
che non c'è più rito, solo un dito
senza mano?
Ma ricordati un dettaglio almeno
quando dimenticherai.


Milano
                                                             
Il cardine cigola
in cima alla cerniera
si svincola dal perno
e affossa la carrucola. 

Il maglio oscilla
ombra sull'asfalto.
La sfera di metallo
appesa alle catene.

La ruspa affonda
i rebbi nel terreno.

Un sottopasso è necessario
più d' una carcassa d' edificio.
E un' arteria.

Tutto è letterale:
freddo da morire
8 decessi.

La cifra poi si aggiorna.
Nulla si dichiara.

Qui
si danno i numeri
mentre sgomberiamo le parole.

Noi è un altrove.



Le strade per Guantanamo

Usciti di scena
rispettavamo ancora
la fisiognomica dello specchio.
Ma erano quinte di gesso e legno
Viale Tunisia, Corso Buenos Aires,  Piazzale Loreto,
controsensi pitagorici le nostre direzioni.

- E’ intrattenimento!  -

Dobbiamo aver pensato anche questo
mentre le nostre identità e pseudonimi
tornavano a circolare feriti 
assieme alla  novocaina della sera.
Eravamo già al sorpasso di noi stessi
scaglie di pelle  scivolate sul bitume
ad aspettare che una parte giungesse
per recitarla sollevati.      

Avrei anche elemosinato
un attimo di solitudine
un taxi per rientrare
non fossi stato consapevole
del vostro ignaro calore
del  sincero condividere
che mi faceva sorridere  delle parole
(dette, suonavano illuse più delle immagini).
- Era solo un film  - 
Ci facevamo coraggio.

Poi abbiamo dovuto Constatare 
che stavamo all'angolo dell'incrocio.
Anche noi   
avremmo potuto essere 
uomini in un canile
piccoli gulliver
nel paese zuccherato 
dell’ avanguardia bellica.
Pastori sanguinari, controversi turisti
e non neutri passanti
all'uscita di un cinema. 

Avremmo dovuto spegnere la luce.
Mimetizzarci con l’asfalto 
per poi non  giustificare
il tram per Lorenteggio,
le nostre strade.

Dovevo ammettere
di non saper traslare
quella lesione visiva.
Che le metafore arrivando
si gonfiavano d’immondizia e menzogna
e marcivano in liquame
sgocciolandomi nei pantaloni.

In quel momento
i versi mi facevano puzzare :
perché la poesia può essere 
sabbia per struzzi
dove cacciare la testa
aspettando lo scoppio.
Ma la vita?

Noi, gli amici di sempre,
abbiamo rabbrividito dell’evidenza
intravedendo il manichino
su cui mettere o togliere il velo delle giustificazioni
la nevrosi da olocausto
che asseconda le inclinazioni umane
del dio che incoraggiamo.

Quindi già eravamo troppo avanti
avvertendo l’onda alle spalle
pesci spinti sulla battigia
da una risacca di sicurezze e passi falsi.
Movimenti dove vuole il caso
uomini e attori
costretti a  boccheggiare
in anagrafi necessarie
su strade differenti
per uguali Guantanamo.

Di noi cinque uniti sottobraccio
della folata gelida che incoraggiava l’amicizia
voglia di andare e tornare poi a casa 
salvi ed intatti
faccio talismano contro l’agguato,
abiura dello sguardo del basilisco.



La città dei soli 

Spero ci venga risparmiato 
un ulteriore tè nel deserto
o qualsivoglia insipida brodaglia
e brogli, e ispirazioni 
o analisi sulla natura umanitaria della battaglia.
I Morsi della fame. Gli entusiasmi digitali per le ascelle dei popoli
(vada per un brindisi allo slogan reiterato, purché conduca ad una lacrima
di commozione clinicamente testata).
Assuefatti alla miopia della vittoria degli ideali sui fatti
ci sfugge che a dipanarsi davanti ai nostri occhi
non sia la storia, nemmeno la memoria
ma un unico atto ebbro di caso  fino allo scompiscio
dove il potere tromba  la realtà e la retorica tromba entrambi
in un kamasutra spastico,
prolegomeni alle paraolimpiadi della partecipazione.

Un bouquet di zebiba e un cocktail di mostrine 
incesto strizzaocchio tra plotoni e sure.
Insomma, notizie che ci fanno stare meglio
visto che c'è chi sta peggio, e non ha mai fine.
L'ansia per il prossimo # hashtag  #
sulle adunate oceaniche, sulle parate in uniforme, sulle piazze 
sempre circolari. Ed orbe più di uno sfintere.

Sono gli inconvenienti della rivolta, gli imprevisti dello speed-date con la "democrazia":
a  volte sarebbe meglio stare fermi
e morire vivendo
che correre agitandosi
verso una fossa 
perdendo nella foga della marcia ora un occhio, ora un testicolo
ora un organo interno. Di senso (e anche sul dissenso ci sarebbe di che recriminare).

L'integrità, in fondo, non è che un dettaglio anatomico (la corruzione pure), mica 
un assunto. O un noumeno.
E a questo ci si dovrebbe attenere invece di incaponirci
con metriche le quali
non fanno altro che replicare 
un silenzio vuoto ed assordante.

Qasr-al-Baron è una menzogna, un trapianto rigettato (posticcio certo, sebbene a lungo
vissuto quale vanto o destino).
Come del resto lo è tutta Heliopolis
e il concetto edipico di Stato o quello di Cittadino o la facoltà 
di scelta.
Una parte recitata male ovunque, ma qui peggio che altrove.
Usurpare la bellezza del cammello. Il suo innegabile
esistere (a dispetto delle idiozie zoologiche e pure antropologiche).
Un animale fatto per dove deve stare.

E non date retta alle storie delle nonne:
non gli è manco mai passato per la testa
di sbattere  ripetutamente il grugno
contro la cruna di un ago.
Ma molto più intelligentemente si è adeguato
scoprendo che viaggiare non ha nulla a che fare con la libertà
o col bisogno.
Né con un regno supposto dei cieli
o   il wahlallah valtur di  Hurghada.



À la plage, à la plage

Mi sono detto 
che avrei dovuto passare 
le vacanze in chat 
darmi a rapporti internazionali ed imprudenti
non protetti
dall' uggia dell' orgia di parole.
Per ogni sera persa nei dormiveglia estivi dei dehors, nell'insonnia delle matinée esclusive
avrei fatto una scoperta ed un' offerta.
Tramontare dentro lo screensaver
Orange and yellow di Mark Rothko
devastato dall'imperizia nell'usare Instagram ed un falò di app imbizzarrite
che mi si ritorcono contro
nonostante la fila notturna all'Apple store nel mese di febbraio.
Con l'indifferenza che ispira l'arte a chi è votato
ad una pira  di gesti creativi e più ancora ridicoli 
(uccidere gli dei dovrebbe provocare la medesima noia,
è dunque preferibile il noviziato del disinfestatore di zanzare)

Parto per la violenza allegra di chi prende ferie dalla salvezza e ne gode.
Baratto da un pezzo su E-bay ogni redenzione 
per un attimo di rischio contabile, una denuncia plausibile della Polfer.
Le tazze di Limoges della nonna.
Insomma un brivido non canonico.
Rinvengo nell'ultimo chupito sul bancone del venezuelano
che, alla faccia della giunta di sinistra, ha occupato abusivamente
un pezzo di marciapiede in via Palmanova  con palme per niente nuove e tavolini
ed interstizi di autentica tristezza e sporcizia.
Perché sono finalmente pronto a raccattare i resti altrui, gli avanzi 
e mettere la dignità dove è giusto che stia .

Piano b, secondo passo.

Che ne farei altrimenti dei bacarozzi ingellati di Piazza Sintagma
i quali, nonostante il flauto, si intestardiscono a non seguirmi.
Dei marinai infracicati prima dell'approdo ad un letto qualsiasi ad Omonia
od abortiti  tra le penchés  di Kolonaki e prezzi al ribasso fino al buco nero.
Dovrei riprendere a seguire le lezioni di passato
dai vecchi che battono al Pireo
dai loro baffoni olfattivi che trattengono le briciole e il vino orrendo bevuto con le mogli
adulterato più di questi versi
(io che per contro natura sono astemio di poesia
e  la pratico più per una sorta di tagliando annuale che per sentimento).
Ma lo ammetto: non ne ho il coraggio.
Aduso come sono a cene raffinate ai bordi della Placa
anche quando non ho fame, né sete. Né carte di credito o reputazione.
Pagherò salato, questo lo so già.
E nemmeno gettare un occhio al posteriore dei posteri mi consola.
E' che non riesco a rifiutare un ammiccare nemmeno quando sono sazio.
Così scendere a Kerameikos è come vagare nell' usuale labirinto
di un’ evidente assenza di attenzione per dove si mettono i propri piedi 
che andrebbero ben più che puniti per le strade che ci spingono a rifare
senza alcuna voglia.  
La coazione domestica di un linguaggio universale (come un franchising anonimo e infinito):
anche qui continuano a costiparmi lo schermo di segni patetici, brutti, incomprensibili:
come questo  :-))  o questo  :-p.
E poi manco mi salutano.

Ma non finisce, né avrà mai fine
(il lettore ostaggio riconosce, a  questo punto atterrito ma in ritardo,  
la minaccia dell'autore attuarsi in vero e proprio assedio)
la crisi  che spinge a ripartire
come rocchetti nelle mani di bambini adescati dai Se delle loro vite precedenti
invece di rilassarsi e spiaggiarsi appagati di ciò che si è sbagliato
ripetutamente 
ed in un afflato finale di generosità ed altruismo 
esalare l'ultimo simulacro e zampettare felici
oltre la soglia di fico che ci ha finora nascosti.



Marco Miconi Nasce nel Midwest padano a ridosso dell'ultima rivoluzione culturale giusto in tempo per vedere depauperate progressivamente speranze ed illusioni fino alla attuale loro disintegrazione . Compie studi umanistici che, oggi, gli permettono di campare. Ma molto di più pesa sulla sua formazione culturale l'uggia della provincia lombarda e il sottobosco della subcultura milanese. E’ inserito nell’antologia “Tramontare dentro lo screensaver orange and yellow di Mark Rothko: 18 poeti  dal Web”  curata da Patty  Schneider, titolo che è tratto da un suo verso.




Una risposta a "Marco Miconi  – Sabbia per struzzi (Patty Schneider e Giancarlo Locarno)"

  1. oggi è giorno festivo è c’è più tempo per leggere e per scrivere. bando agli indugi, dunque.

    Marco Miconi fa parte di quell’umanità virtuale cui voglio bene. per qualche anno, assieme a un manipolo di carbonari della parola scritta, abbiamo condiviso lo stesso tetto (uno di quei blog collettivi che incarnavano il senso del web prima che tutto fosse tumulato in fosse comuni e ingoiato per sempre dal narcisismo vacuo di facciabuco nero o dai consimili socciamelo netuorc). eh… per quale motivo l’umanità stia gradulamente involvendosi nel momento stesso in cui ha a disposizione risorse culturali mai viste prima nella storia, soltanto “i gatti lo sapranno”…
    : ))

    e a proposito di gatti, è noto che l’istinto li spinge ad arrampicarsi su alberi e tetti per raggiungere un punto di osservazione dal quale controllare meglio il territorio che li circonda. ecco: Marco possiede la stessa lungi-miranza in ambito letterario e la prima poesia ne è prova lampante. col gioco dei pronomi l’autore addita il parcellare soggettivo del reale *senza* ricomporlo: spetta al lettore, a fine lettura, tornare al verso iniziale “noi cosa vedremo” per fare il punto (di domanda) della situazione. trattasi dunque, in un certo senso, di un’ulteriore declinazione della maieutica reciproca di cui si parlava dentro e in calce al saggio “Environmental Education and Empowerment” di Abele su Danilo Dolci. l’immagine di monitor e televisori sovrascrive l’immaginario soggettivo generando un mondo altrettanto immaginario ma globale (trattasi di immaginario ad usum delphini, opportunamente manipolato dai “padroni del discorso”, come profetizzato da Baudrillard). “guardare” non implica la capacità di “vedere”, così come “egli”, “io”, “loro”, “lei o lui”, “voi”, “tu” diventano soggetti “indifferenti” (in ogni senso). immobili in platea, intrappolati come gli *spettatori* improvvisamente *protagonisti* del massacro del teatro Dubrovka, che margini di manovra ci restano se non sappiamo cosa sta realmente accadendo? dunque anche la scrittura diventa inabile, ridotta a “sottotitoli” (che infatti scorrono) e ci tocca recitare un ruolo da carni rosse già pronte in tagli, sul banco macelleria dell’ipermercato: lembi non suturabili (“resta taglio”, un noi fatto a pezzi, brandelli di battute). brrr….

    la parte iniziale di “Milano” è meccanica in versi: un ingranaggio perfetto che trita parole traendone il succo *necessario*. ecco… “necessario” è un lemma che davvero fa paura… sventra più di una ruspa, abbatte più della palla del demolitore, pretende sacrifici umani (8 decessi in divenire) e ci riduce a “numeri”. follia, mutismo e rassegnazione: financo lo spiraglio della prima lirica si serra in chiusa (“noi è un altrove”).

    “le strade per Guantanamo” sembra riprendere per mano “trailer”. l’intrattenimento, come dice la parola, ci trattiene entro una condizione mentale di “neutri passanti”, mentre l’orrore intorno a noi diventa “solo un film” e il “sorpasso di noi stessi” è una poesia che diventa “sabbia per struzzi” di cui ti rendi conto troppo tardi (“già eravamo troppo avanti / avvertendo l’onda alle spalle / pesci spinti sulla battigia”). ed ecco che la strada che ci riconduce verso casa appare per ciò che è realmente: la medesima via che deporta a Guantanamo. ahinoi, di certo non ci salva l’amicizia (o almeno, non quella di facciabuco nero).

    E allora rincasiamo (nella “città dei soli”) dove il post è per definizione post-iccio (“gli entusiasmi digitali per le ascelle dei popoli” e le lacrime “clinicamente testate”). la materiale fisicità dei versi (“scom-piscio”, “tromba”, “kamasutra spastico”, “sfintere”) fa da contraltare disperato all’impalpabile vacuità dell’ansia “per il prossimo hashtag” e alla frivolezza del viaggio (letteratura di evasione compresa) dove ogni cosa perde senso, compreso il cammellifluo “dissenso” da salotto intellettuale o di piazza. forse il principale “dettaglio anatomico” nella città dei soli è proprio la solitudine e nulla descrive in modo altrettanto efficace lo stato della poesia contemporanea quanto il palazzo di Qasr Al Baron. in modo che a mio sentire è provocatorio, Marco suggerisce “intelligentemente” di adeguarsi. o forse è saggia consapevolezza della natura umana e dell’assioma che l’uomo è “un animale fatto per dove deve stare”…

    l’ultima poesia reagisce alla tragedia umana di cui sopra brandendo un’ironia beffarda (urticante l’idea di tramontare sull’iPhone dentro uno screensaver preso da un dipinto di Rothko). e via, si parte per il viaggio “nulla a che fare con la libertà / o col bisogno” (come ci insegna il cammello, virando il dileggio in auto-ironia): una passeggiata domestica, una coazione a ripetere che addomestica il linguaggio universale dell’incomunicabilità, la voglia di fico oltre la soglia di fico. non c’è esorcismo/esotismo che tenga, non c’è labirinto che ci sperda se i piedi e l’istinto ci riconducono sempre sulle stesse strade. eh… che aggiungere? ebbene sì, aggiungerei che in effetti, l’unica cosa bella che ci resta è proprio l’ostinata testardaggine (generosità e altruismo) con cui continuiamo a riscrivere all’infinito il nostro disperato messaggio in bottiglia, cercando di comunicare anche solo qualcosa, anche solo la solitudine, anche solo la sola che ci stiamo rifilando da soli.

    tirando le somme, com’è giusto che sia, di questi tempi il poeta non addita una via maestra universale né ci svela verità assolute. il fragile (e dirompente) intento del poeta del nuovo millennio potrebbe essere proprio quello di farsi voce umana, tra le macerie.
    eh, in pratica, un abbraccio e un grazie di cuore a Marco (e a Patty Shneider e a Giancarlo che ce lo hanno riproposto qui).

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