
A proposito di questi versi
Sui marciapiedi li sminuzzerò
in un miscuglio di vetro e di sole.
D’inverno li rivelerò al soffitto
e li farò leggere agli angoli umidi.
Comincerà a declamare il solaio
con un inchino alle imposte e all’inverno.
Verso i cornicioni balzerà un salincervo
di stramberie, sventure e annotazioni.
Non un mese soffierà la tormenta,
cancellerà le fini e i principi.
D’improvviso mi ricorderò: c’è il sole.
Vedrò: la luce da tempo non è più quella.
Come un piccolo corvo Natale darà un’occhiata,
e il dolce giorno rasserenato
rivelerà molto di ciò,
che a me e alla mia amata non venne in mente.
Nella sciarpa, proteggendomi col palmo,
attraverso lo sportello griderò ai bambini:
“miei cari, qual millennio,
è adesso nel nostro cortile?”
Chi ha scavato un sentiero verso la porta,
verso il buco intasato di neve,
mentre io fumavo con Byron,
mentre bevevo con Edgard Poe?
Mentre accolto nel Dar’jal, come presso un amico,
come in un inferno, come in un deposito e in un arsenale
io la vita, come brivido di Lermontov,
come labbra nel vermut immergevo.
1917
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(trad. di A. M. Ripellino dal Corso su Pasternàk del 1972-73-
segue suo commento – le note sono di A. Sagredo)
Dar’jal è un passo montano, la porta del Caucaso.
Vi è qui un accavallamento di metafore, una sovrapposizione, un intrico di metafore, una intricazione: più di tutti i futuristi, Pasternàk intrica le metafore, le mette a tegola una sopra l’altra, crea un complesso metaforismo che ricerca l’identità delle cose. Più piani diversi sono accostati per dare una sola immagine.
Nello stesso tempo Pasternàk si compiace della prodigalità di immagini aberranti. Si crea uno spazio topologico formicolante, fittissimo, stretto, intasato come i vagoni dei traslochi.
Pasternàk non ha paura del “kak” (del: come).
In questo spazio urta, accatasta le parole come un vecchio farmacista in modo che esse si esorcizzano a vicenda, creando un senso di casualità, mentre c’è sotto una profonda logicità: da estreme lontananze si incontrano parole cariche di elettricità contraria e si abolisce lo scarto delle cose.
È importante per quei due versi: ”Miei cari, qual millennio / è adesso nel nostro cortile?”, cioè per l’assenza del poeta. Siamo nel ‘17, in piena rivoluzione.
In Čërnyj bokal (Il boccale nero), Pasternàk oppone il poeta all’eroe, la lirica alla storia, l’eternità al tempo, come inconciliabili categorie di piani diversi: ”Entrambe sono aprioriche e assolute”: Rendendo omaggio ai soldati della storia assoluta (i politici) egli lascia la poesia libera di:
non sfiorare il tempo, di non occuparsi della preparazione della storia per il giorno di domani [161].
Pur apprezzando la storia e l’eroe egli difenderà sempre il posto libero del poeta. La poesia è anche monumento alla sedia vuota [162]. La poesia può essere eterna anche al di fuori dei problemi attuali o delle ideologie. Questo non significa che Pasternàk sia al di fuori del suo tempo o che non lo rifletta in pieno. La rivoluzione è molto più forte in questi due versi di sonnambulismo che in tutta la possibile fanfara di altri poeti cosmici, cosmisti, proletari, ecc. Pasternàk è stato accusato di assenteismo, di distacco. D’altra parte dobbiamo pensare Pasternàk come ultimo pierrot lunaire; è l’ultimo jongleur enormi, l’ultimo sonnambulo della poesia moderna[163].
Erenburg, nel 1920, scrisse che in Pasternàk c’era “l’attrazione sonnolenta dell’essere” molto bello, molto preciso per lui. Non c’entra l’oblomovismo, non è pigrizia, è un’assenza che vuol vivere, che adora la vita, ma che vive sempre trasognata.
È la sua trasognatezza il centro della sua poesia. Ecco perché dico sempre che la trasognatezza di Pasternàk è simile a quella di Buster Keaton.
La Cvetaeva ha messo in risalto questa sua sonnambulità e dice:
Non si ricorda di se stesso e d’improvviso a volte si sveglia, e allora sporgendo la testa fuori dallo sportellino, cioè sporgendola nella vita, ma, che meraviglia, non è un professore di Marburgo, strampalato, non è un cantore di cupole, ma è uno che ha la voce addormentata e dall’alto sporgendosi dall’abbaino nel cortile dice: Miei cari, qual millennio è adesso nel nostro cortile?”.
[161] Non so in quale senso lo slavista usa il termine aberrante (forse nel senso di abnorme e anomalo insieme) certo è che è presente un compiacimento del poeta nel far si che le immagini siano le più intricate possibili: sono affastellamenti, all’apparenza arbitrari, ma c’è sotto una razionalità estrema che distingue una immagine dall’altra nello stesso istante che una immagine prevarica sull’altra; vi è dunque una distinzione dovuta al trionfo del “kak”, di questo “come” che individua le diverse epoche e i diversi tempi e le passioni civili e poetiche del poeta stesso: non ci può essere contraddizione in questa costruzione, poi che l’esperienza neokantiana di Marburgo ha fatto scuola nella elaborazione stessa del suo pensiero, e dunque del suo far versi. Quel misto di stupore e caos si inscrive in questa costruzione, tal che Pasternàk chiede aiuto a quei tre poeti, a lui per molti versi congeniali: romanticismo estremo, fantasticheria e superuomo s’intrecciano e vanno a cozzare coi tempi della rivoluzione: da qui la celebre e fondamentale domanda – della quinta strofa – diretta a lui stesso, all’epoca, e alla storia nel suo svolgersi; e tutto questo viene scritto e fissato con le tecniche poetiche tipiche del romanticismo, del simbolismo e del futurismo. In tutto questo apparente bailamme s’intreccia una geografia ben precisa e molto nota al poeta: è il mito del Caucaso: croce e delizia di tantissimi poeti russi. ///// Notare che il l primo verso della terza strofa nelle edizioni Einaudi è tradotto: “Soffierà più di un mese la tormenta/…” In questo Corso è scritto: “ Non un mese soffierà la tormenta/”. Questi due versi: “Miei cari, qual millennio / è adesso nel nostro cortile?” sono e segnano la celebrazione e il trionfo dello stupimento del poeta davanti alla storia; lo stupimento è arte, e la storia è altra cosa: due mondi incomparabili, scrive il poeta. Bastano questi versi, come pochi altri rari (come p.e. alcuni versi della poesia Poesia) dell’intera sua produzione poetica perché si possa con certezza affermare sono di Pasternàk, e di nessun altro poeta!
[162] Le statue dedicate ai poeti sono segni volgari, segni di vacuità, di filisteismo a buon mercato, ipocrisia postuma, provinciale, abbietta.
[163] Ripellino come non tralascia di informare il lettore sulle distinzioni tra Pasternàk e Majakovskij, così non tralascia mai di riferirci l’apparente non partecipazione del primo agli eventi storici a lui contemporanei. Pierrot-Pasternàk non è da meno di Arlecchino-Majakovskij a denunciare le storture della loro epoca. V’è una pagina, che invito a leggere, di Andrej Sinjavskij, significativa circa le differenze tra i due poeti; differenze che si dilatano fino a coinvolgere Blok, Cvetaeva ed Esenin. Andrej Sinjavskij, Boris Pasternàk- Poesie inedite, Rizzoli 1966, pgg. 18-19. Ripellino mi riferì, a pochi mesi dalla sua morte, che il saggio di Sinjavskij restava il migliore che fosse stato scritto su Pasternàk. Ma pure la Cvetaeva ha scritto sui due poeti
straordinarie pagine in L’epos e la lirica della Russia contemporanea (Vladimir Majakovskij e Boris Pasternàk). E tanti altri studiosi insigni, p.e. come Tynjanov, Šklovskij, Roman Jakobson. /////// Alla terza strofa secondo verso: più che “cancellare le fini e i principi”, è un “coprirli di neve”.
Grazie ad Antonio Sagredo per averci donato questa traduzione, proposta da Ripellino durante il suo corso su Pasternàk del 1972-1973, accompagnata da un commento di Ripellino e le note dello stesso Antonio. Antonio fu studente di Ripellino, con cui si laureò e partecipò anche come attore alle esperienze teatrali di Ripellino regista (tra il 1971 e il 1974). Il commento di Ripellino sulla poesia di Pasternàk mi sembra azzeccato per la poesia dello stesso Ripellino. E chiedo ad Antonio, non conoscendo bene Pasternàk, quanto possa essere stata l’influenza di Pasternàk sulla poesia di Ripellino. Molto bello, inoltre, il riferimento di Antonio, nelle sue note, alla “trasognatezza” di Buster Keaton, cara come sappiamo a Carmelo Bene, che Antonio ha conosciuto e che di poeti russi se ne intendeva.
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Caro Abele, devi sapere che Ripellino è stato il primo ad associare la figura del Poeta russo a quella del geniale artista Buster: il concettto di trasognatezza appartiene al commento del Ripellino; ed io non posso che approvarlo. Inoltre una certa somiglianza dei loro volti… equini, già evidenziato dalla stessa Cvetaeva.
A Carmelo io regalai una delle due foto originali [(una prima ce l’ho io – del 1957 – che Evtusenko fece a Pasternàk… presente all’incontro era Ripellino ] andai a trovarlo nel camerino: era sfatto, di cattivo umore: gli spettatori non superavano la ventina! , rientrava (dopo la parentresti cinematografica) con una nuova versione “teatrale” di Nostra Signora dei Turchi (rientro che dal mio punto di vista fu un grave errore…. ma salutare, poi che da questa irrappresentazione si avviò verso la leggenda.
Questa foto esiste da qualche parte del suo lascito agli eredi.
A. S.
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Grazie, Antonio. Da riprendere l’associazione Keaton/Pasternàk… E a proposito di CB, ecco una bella chicca da youtube:
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Molto bello il post, che intreccia e fa convergere nel punto di una poesia tre percorsi vitali diversi
(forse 4 ,che CB compare come convitato di pietra).
Kak/come il poeta affastella i suoi versi, così ( kak/come) la storia affastella i suoi eventi
e i due processi almeno in un punto si intrecciano e si corrispondono, e questo punto è la poesia, la domanda del millennio.
(un solo appunto, manca il testo in lingua originale, io penso che ,volendo, si impara sempre qualcosa da un testo originale anche se non si conosce la lingua).
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“Pasternàk non ha paura del “kak” (del: come).”
molto bella questa lettura, grazie!
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