di Roberta De Luca
Leggendo le poesie sul calcio, della raccolta 11 Apostoli di Pasquale Vitagliano, non si può non pensare a Saba. Negli anni Trenta, il grande poeta triestino dedicò al calcio cinque bellissime liriche, tra cui Goal, che riprendo qui per sviluppare alcuni pensieri nati da due poesie di Vitagliano: Faccio lo steward e Io so che adesso (utilizzo il primo verso perché, alla maniera dei canzonieri della tradizione, il poeta terlizzese spesso non mette titoli ai suoi testi).
Il tempo trascorso tra i poeti e la natura delle loro opere mi obbligano a una riflessione: credo che lo spartiacque tra la poesia di Saba e quella di Vitagliano sia costituita dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale e, in particolare, dalla vicenda dei campi di sterminio. Dopo Maidaneck, per dirla con l’espressione sabiana di Scorciatoie e raccontini, nulla è stato più come prima; nulla avrebbe potuto essere più come prima.
In Goal di Saba, si gioca una regolare partita di calcio come metafora della vita umana, che si realizza in un’unica possibilità di tempo e in un determinato spazio. La realtà è osservata da due opposti punti di vista: il portiere che subisce il goal, caduto, in ginocchio, affranto, e quello che esulta da lontano perché la sua squadra ha segnato. Nonostante la loro posizione isolata, i due giocatori partecipano alle emozioni delle rispettive squadre, sentono di appartenere ad una comunità. Con conseguenze diverse, avvertono sulla pelle l’ebbrezza della folla che esulta, e la solitudine dell’ultimo difensore è incorporata nella gioia e nel dolore dei fratelli. Si determina inoltre una rete di affetti, in cui anche la sconfitta è assimilata ad un’esperienza di amicizia e condivisione.
Nelle due poesie di Vitagliano, gli eventi hanno mutato lo scenario. L’io lirico coincide con uno steward, il guardiano del recinto (questo il significato proprio, dall’etimologia dell’antico inglese), che ha il campo alle spalle e percepisce il mondo in modalità indiretta, vedendo “quello che vedono gli altri” attraverso le reazioni del pubblico sugli spalti. Non guarda veramente, svolge il suo lavoro e rimuove ciò che accade dietro di lui. Poi, finalmente, si gira, e intravede nel recinto, “al di là della linea d’ombra” (un’altra poesia della raccolta), la “spianata immobile dei corpi”. Il campo di calcio diventa altro da sé, connotato com’è dalla polisemia del termine, e ci conduce a marce forzate verso l’abisso dell’uomo. Il campo di concentramento dà la misura di un’umanità violata che, da Maidaneck, a causa di Maidaneck , non sarebbe stata più la stessa. Noi siamo figli di quella storia, di quel passato. Dobbiamo voltarci e guardarlo in faccia direttamente, per noi, per il futuro dei nostri figli, per restituire al calcio la bellezza della festa e la sacralità della vita, per recuperare un senso che ci renda pronti a rovesciare, nella leggerezza di una capriola, le tragiche parole della derisione che campeggiano sulla Storia: “Il calcio rende liberi”.
Le poesie di Pasquale Vitagliano “sono, oltre il resto, reduci, in qualche modo, da Maidaneck” (la citazione è di Umberto Saba e chiude le Seconde Scorciatoie. Correva l’anno 1945.)
Goal
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla – unita ebrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.
*
Faccio lo steward
ho il campo alle spalle
non vedo mai la partita
vedo gli altri esaltarsi
o disperarsi, no!
Faccio lo steward
ho il campo alle spalle
lo spettacolo che vedo
è quello che vedono gli altri.
Sì! E gioiscono, urlano, saltano.
una volta però l’ho fatto.
Mi sono voltato.
È stato un secondo. Ed è stato orrendo.
Non c’era un prato verde
e non si giocava nessuna partita.
Ho solo intravisto
una spianata immobile di corpi.
*
Io so che adesso
è negli stadi che vive Quasimodo.
Gli stadi, i campi, l’arena,
non più le cattedrali, il catino,
il campo di concentramento,
il pianeta crollato, l’astronave,
i colossei, l’uovo, l’occhio.
Entrate, il calcio rende liberi
allegoria del pallone
che non vuol dire nulla
e invece dice tutto.
preziosa la riflessione di Roberta De Luca, in particolare l’immagine dello “spartiacque”. e potentissima la poesia di Vitaliano “faccio lo steward”. in effetti, la forza ulteriore di un’opera d’arte (sia essa uno scritto, un dipinto, una scultura o altro) sta anche nella sua potenzialità di “trascendere” sia il contesto storico sia l’autore stesso, di riuscire a comunicare un messaggio che sopravvive nel tempo, ovvero di riuscire a comunicare l’umanità decontestualizzata, l’essere umano nudo. in tal senso, sarà capitato anche a voi di rileggere romanzi o poesie e di scoprirli “invecchiati male” (o per contro di tornare a sfogliare opere scritte secoli prima e trovarle vive e vitali come appena partorite, per energia e contenuti). dico questo perché di spartiacque è piena la storia dell’umanità (quello citato da Roberta De Luca è sicuramente uno dei più drammatici, ma ve ne sono indubbiamente anche altri, più recenti, subdoli/invisibili) e “Goal” di Saba mi è parsa molto meno viva di come la ricordavo. per contro, qualche mese fa ho riletto i racconti di Kafka e quelli picchiano durissimo anche a distanza di oltre un secolo. il tutto mi torna in mente adesso perché la poesia di Pasquale Vitaliano m’ha rievocato “il ponte”, uno dei migliori racconti di zio Francesco: l’io-ponte narrante, proprio come lo steward, si volta per un secondo per vedere chi lo calpesta e, inevitabilmente, perde l’appiglio e precipita nel vuoto/abisso dell’orrore. in tal senso, è probabile che “faccio lo steward” sia destinata ad un’eterna giovinezza. mi spiego: nei versi prende corpo un paradigma universale, quello dell’umanità tifosa in senso lato, dedita a quel fanatismo simil-sportivo che finisce per animare e contrapporre le masse in ogni aspetto della realtà sociale, politica, economica, religiosa, culturale e quant’altro. sì insomma, il classico ragionamento binario per credo e appartenenza, che riconosce solo il bianco o il nero, il “sì!” o il “no!” e specchia se stesso nel “pensiero premasticato e predigerito” dettato dai media e dal tal partito/movimento guida. ecco, nella figura dello steward “guardiano dell’io”, ci leggo l’io smarrito e acefalo, incapace di “leggere” la realtà in prima persona, che si lascia guidare dagli altri: l’umanissimo istinto del gregge nudo e crudo, declinato in tifoseria mentale. terribile dunque, l’atto liberatorio, il guardare/pensare con la propria testa, che squarcia la fiction del pensiero dominante, che tocca con mano l’orrore abilmente camuffato dietro il neuromarketing del potere orchestrato dai ministri della propaganda (per informazioni, citofonare Goebbels, ma in caso non rispondesse anche il Sole24ore va benissimo). ed ecco che sorge spontanea la domanda urticante posta da zio Federico: quanta verità può sopportare un uomo? ovvero, torneremo con coraggio a guardare ancora e a lungo il campo da calcio? avremo il coraggio di “vedere” e sapremo prendere coscienza dell’orrore o dopo avere “solo intravisto” torneremo a volgere lo sguardo verso il più rassicurante degli spot commerciali? ai posteri, anzi no, al “giudizio dei mercati” l’ardua sentenza.
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personalmente sono abbastanza scettico, ma non per questo mi rassegno (sono fatto male: trovo i perdenti molto più simpatici e umani dei vincenti). e forse proprio a causa di questo mio velato pessimismo, leggo nel verso “il calcio rende liberi” della poesia seguente la stessa beffarda presa in giro dei campi di sterminio… sì, insomma, magari non era nelle intenzioni dell’autore, ma non c’è dubbio che *il calcio* come quintessenza dello sport di massa – o meglio, arma di distrazione di massa – incarni e allegorizzi nel mio sentire soprattutto contenuti negativi.
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La lettura di Roberta De Luca è davvero illuminante. Ringrazio poi Malos per la sua azzeccatissima riflessione e per la sua generosità verso di me.
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Ringrazio Malos e Pasquale per il loro apprezzamento. La bellezza dei grandi testi è proprio questa, far nascere riflessioni condivise e/o opposte e lasciare il campo aperto. Ancora un campo. Io amo molto Saba, e Goal mi piace sempre, ma ancora di più mi piacciono i suoi aforismi, che trovo addirittura geniali;le poesie di Vitagliano, è vero, hanno immagini di una forza straordinaria e permettono di costruire ponti, relazioni, di scendere in profondità. Mi piace credere che le parole beffarde cambino di segno in positivo, sebbene io sia come Malos pessimista e perdente per impostazione: in ogni caso, solo facendo i conti con il passato possiamo tentare di salire un gradino più su nella scala della civiltà. Perché il calcio è il gioco più bello del mondo. Buonanotte
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Stupefacente la poesia dello steward, di impatto così immediato sulla realtà, pure immagini e un pensiero diretto da sembrare privo di mediazione verbale.
Io nello sguardo finale steward ci ho visto lo stadio di Santiago che pinochet aveva trasformato in un campo di concentramento, e che ho conosciuto in modo più diretto che non i campi di concentramento nazisti.
Ho visto nella prima parte una caverna di Platone dove si mescola il non poter vedere con il non volere.
Ho rivisto una caserma.
Lo scorso anno ho lavorato per qualche mese a Milano, nelle vie di Testori.
C’è una caserma ancora attiva, vi è stato alloggiato un gruppo di migranti africani, che convivono con i militari. Ogni tanto un gruppo di abitanti della zona va davanati alla porta della caserma per manifestare contro quella presenza. Cento metri avanti e non c’è più nulla. Poi mi si moltiplicano le immagini a tutti i campi e gli steward di oggi. Come se nelle immagini così veloci fossero contenuti pensieri non ancora pensati.
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