Nel volumetto “Trittico d’esordio”, sesto della collana “Aperilibri” a cura di Anna Maria Curci, presentato a Roma il 19 giugno scorso, spiccano per originalità e bellezza le poesie di Francesco Cagnetta. Si tratta di liriche senza titolo, nelle quali domina incontrastata un’immagine, quella del corpo. Non c’è una parte del corpo che non venga nominata e spesso connotata da una sua propria carica icastica e impoetica (esofago, ventre, falangi, poro di grasso…), con un procedimento volto a rappresentare la frantumazione progressiva del tutto, fino alle zone periferiche, alle fibre più piccole, ai capillari disseminati qua e là e tenuti concettualmente insieme dalla parola-chiave. Corpo. È il corpo dell’io lirico, spento, smaterializzato, solo, cavo come un ceppo di ulivo vuoto, coltivato come fosse l’ultima specie, linea verticale che assolve con diligenza le funzioni vitali in una estenuante sopravvivenza.
All’interno dell’involucro di questo corpo mai vissuto, pulsa la vita, che si propaga dall’attaccatura dei capelli al grande raccordo del cuore, ridestando ogni spirito vitale e combattivo, primo fra tutti, quello della parola, e trasformandosi in versi: Sudo le macerie/di questa terra nera/e non mi taccio. La lingua si rivolta/batte come un sicario/i solchi cavi dell’ulivo.
La pelle del poeta, discrimine e confine del rapporto con il reale, segna il contatto col mondo esterno, con il paesaggio nero, glabro, privo d’acqua, assolato ma freddo, che ci riporta all’asprezza del Dante petroso, agli scenari di Sbarbaro o del primo Montale, e che si traduce nell’espressionismo dello stile. Tale contatto, apparentemente panico, non genera in realtà una fusione con la natura, non realizza l’oltreuomo in un piacere dionisiaco, ma piuttosto produce un’idiosincrasia, un senso di estraneità e di asciutta sofferenza. La tensione all’assoluto verso il mare aperto è continuamente frustrata – la fibra mai diviene docile, come accade in Ungaretti – si ritrae in una caduta sistematica, che assume sembianze ben precise: essa è la catena posata ai piedi del poeta; è questo nostro Sud (che compare anche nel significante dell’anafora sudo, nella poesia da cui sono tratti i versi prima citati) che soccombe all’inerzia, al vuoto, al fatto che non accade e che neanche la memoria potrà recuperare. Perché non è mai esistito nulla.
È una poesia fisica quella di Francesco Cagnetta, che il lettore assorbe attraverso sensazioni fisiche, di pelle, di pancia, di carne, ritrovandosi nella lacerazione del corpo che il poeta racconta, dentro la frattura tra l’io e un paesaggio amato nel profondo, che rappresenta drammaticamente, con il rovesciamento di un topos secolare, la fine inappellabile dell’armonia, il male di vivere di un giovane poeta del Sud, che solo nella poesia potrà sfidare questo destino: ho rose pronte per la schiusa/ nascoste nella consapevolezza/del mio silenzio.
Roberta De Luca
poesie scelte: Francesco Cagnetta_Trittico d’esordio 2017
Francesco Cagnetta. Nota autobiografica
Nato a Bisceglie (Bt) nel 1982 e residente in Terlizzi (Ba). Esercito la professione di avvocato.
Pur essendo un autore pressoché esordiente, alcuni miei scritti sono comparsi in alcune antologie non cartacee. Diverse recensioni su blog letterari a cura di Pasquale Vitagliano, Nicola Vacca ed Anna Maria Curci.
Ho partecipato a diversi reading letterari tra cui al Festival “La Luna e i Calanchi” a cura di Franco Arminio.
Tra i miei poeti che preferisco ci sono quelli che hanno affrontato le questioni del meridionalismo (Bodini, Scotellaro, Toma, Angiuli, …).
Poesie di una lingua precisa, oltre alla tematica del corpo come tronco, ci vedo anche la volontà di uscire da questo corpo, così come i prigioni di Michelangelo vogliono uscire dalla roccia. Il tronco-corpo poi, è come il sud nella sua prigione, e c’è nelle poesie una tensione civile per “smaterializzare” questo suo “soccombere”.
"Mi piace""Mi piace"
interessante, anche se qualche verso mi si smarrisce d’espunzione poetica in sospensione prospettica (cosa un po’ troppo lirica per i miei gusti contadini).
l’equilibrio più fisico mi sembra raggiunto nel promontorio glabro del canottiere sporadico e in sudo le macerie.
nella seguente coppia di versi, avrei scritto come variante “Un ceppo cavo / da cui vuoto sempre qualcosa”.
bravo dunque Francesco Cagnetta e, per un futuro migliore, speriamo nella rivincita dei sud del mondo.
: )
"Mi piace""Mi piace"
Grazie!
"Mi piace""Mi piace"
Seguo mano a mano Francesco da tempo. La sua poesia sta crescendo più sulla parola-letta che su quella -scritta. Questo apprendistato lo rende autentico e di valore. Senza trucchetti, senza vanità, senza “cineseria” culturale. Piano piano sta entrando a pieno titolo nella “biografia” dei poeti del Sud. Aderente e niente affatto scontata la nota critica di Roberta De Luca.
"Mi piace""Mi piace"