Marco Conti: “La mano scrive il suono”, nota di lettura Doris Emilia Bragagnini

  

Marco Conti, La mano scrive il suono. Archinto copertina 

La mano scrive il suono di Marco Conti

prefazione Flavio Santi, Archinto ed. giugno 2021 pp. 117

 
 
Non capita spesso leggendo poesia d’avventurarsi in libri dove i testi siano talmente coesi da convalidare via via la percezione consapevole d’aver intrapreso un viaggio all’interno di una volontà precisa, intenta a scandagliare le multiple sfaccettature di un’evocazione unica, o per essere ancora più precisi, in questo caso, di una rievocazione unica. Fatta di svariati e rapidi movimenti, frammentazioni che messe l’una accanto all’altra vanno a formare un tratteggio capace d’indagare tempo e spazio. “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla” suggeriva Gabriel Garcìa Marquez e citando anche André Malraux: “la vita è quella che si racconta non quella che si ha”.  In questo libro l’autore dimostra la possibilità di entrambi. Credibile, palpabile, la sottile atmosfera rarefatta, catturata attraverso il retino finissimo delle parole, si espande nella dimensione del sogno di cui i ricordi sembrano essere al timone. Immediatamente già nella prima sezione: “Partenze”, con il primo pregnante testo si sarà calati in una sorta di straniamento onirico pieno di malìa, capace d’innescare il desiderio di saperne di più e più da vicino, per la possibilità di raggiungere il lievissimo miraggio che si va delineando all’orizzonte.

Sono uscito veloce
per un momento
lo specchio ha guardato il bianco
le pieghe della camicia.
Mi è piaciuto
non incontrare gli occhi
non sapere quanto tempo è passato.
Potevo scendere
scrollare la terra dai tacchi
ma ho saputo scappare
come una lucertola
sull’orlo verde delle cose.
Se chiudo gli occhi
sono in quello specchio,
gli alberi splendidi
il mattino quasi finito,
strappato a qualcosa
che non saprei dire.

dalla sezione I “Partenze

L’autore si riappropria del passato rivivendolo nel ricordo, sa catturarne il riverbero e moltiplicarlo trasponendolo in setose e avvolgenti cromie. Nominato più volte il verde (alberi, erba, foglie, edera, muschio) ma anche il bianco (ciottoli e strade, della neve, delle nuvole), il blu, il grigio, l’azzurro, il giallo. Come assistendo alla proiezione unica in movimento di svariati fotogrammi, di ricordo in ricordo assistiamo allo sfavillio dei luoghi, delle luci, delle stagioni, delle persone, degli amori, dell’infanzia. Su tutto sempre lo sfondo della natura, dei piccoli animali: cince, formiche, scriccioli, gazze, lucertole a comparire nella malinconia, antica e nuova.

La mano scrive il suono
di ciò che la trascina, desiderio
o sperpero verde. Le ramaglie
si gettano contro il muro
per il poco ultimo che appare
nella misura dell’aria: scene
di falde celesti, il tepore dei nomi,
bordi dove la ruota ripassa
in continuazione.
Continuo a dondolare, seduto
girandomi verso una stella di rami,
le mani, le dita sporgendo
come un flagello nodoso.

*

Era prima il blu incenerito
prima della svolta l’abbagliante
e verde salito sulle scale
prima di cedere e stormire
un’ultima volta tra felci e muschi
– aveva nevicato
ascoltavo l’odore di vuoto
niente di più che piedi e polpacci
difeso dal buio.
Nello stupore delle rovine
sono rimasto vicino a loro
sospeso a questa debolezza.

*

Per sistemare il giorno
c’è questo angolo
voltato verso lo specchio
che ripete l’abbaglio
l’arco teso del tuo collo
– la fine è alle spalle
un discorso tintinnante
nell’afa. Sapere le cose
non è servito. Ecco
il midollo, la luce varia
barcolla tra ciò che si consuma
se soltanto la sfiori.

*

La vedi solo ora la nube
che si sfalda lungo lo sterrato.
Vorresti angoli puliti
uno steccato bianco
parlare con precauzione
– invece queste ombre
gettate come guanti
oltre ogni pensiero, con noi
nelle cose prime, nel sonno
tra ciò che non avremo.
Ricordo i vostri visi
non molti volati via nella luce
le facce strappate
diciamo arrivederci sulla soglia.

*

Quest’anno il freddo è solo.
Né nomi, né poesie
si rincorrono nel campo
tra fogli e piccoli uccelli
nello scuro del giorno – blu
o grigi in viaggio sugli orti.
E’ meno di quanto desidero
salvo questa immagine
della mia gatta alla finestra.

*

Il tempo è continuato
sono rimasto sul parapetto
nella felicità di un corpo
ho visto questi pochi segni
sull’acqua queste gote
ardenti e bucate
le loro parole non finite

testi dalla sezione  V La mano scrive il suono

Essere nel luogo dell’anima senza esserci davvero perché il luogo è svanito e così i volti cari, solo le parole a salvare dallo smarrimento, la consapevolezza della rivisitazione, il cielo come compagno interrogativo, gli improvvisi, i cassetti, le scale, il cuscino di pietre, i muretti a secco, lo specchio, coordinate agognate non più materiche.

Oggi scelgo il terrazzo
sorrido alle lucertole
mangio nel vento
seminando chiarori,
rapide chiazze qua e là
spostandomi con l’ombra.
Un giorno andrò altrove
contro il nuvolo,
via dalla certezza dei cassetti.
Un giorno zoppicando
resterò alle mie spalle
tra gli alberi che dondolano
che dondoleranno ancora
e ancora lentamente.

dalla sezione Montmajour

Il libro è composto da due parti: La mano scrive il suono (frazionato in sei capitoletti: Partenze, Versando nell’acqua, Stringa di luce, La scontentezza delle dita, La mano scrive il suono, Montmajour), e Viaggio a Cuma (“sequenza del tutto autonoma… nove poesie unite dallo straniamento da un viaggio”, dice Marco Conti nella interessante e piacevole nota in conclusione, dove compare anche qualche passaggio illuminante dalla corrispondenza sul tema con il poeta Milo De Angelis che spiega il perchè del suo gradimento).

Cosa unisce queste due parti distinte dal volerle insieme? Cos’è il suono per l’autore che osserva la sua mano che ne scrive? In questo libro tutto è viaggio, la precisazione geografica dell’ultima serie è solo un dettaglio, quasi una “soffiata” che annuncia d’essere coesistiti altrove, lontani geograficamente dal luogo in cui ogni oggetto, ogni angolo, ogni luce, hanno parlato nella prima parte ma vicino al rumore mentale che il lavorio della nostalgia e del rimpianto hanno saputo produrre in ogni dove. C’è un moto circolare tra le due parti, ognuna conduce all’altra. Tra il sogno e la rimembranza, come in un gioco di specchi, si ha la sensazione di accompagnare l’autore distinguendolo in un agire sdoppiato: la parte che avanza abbandonandosi alla percezione della sinuosità di un vissuto rivisitato con tenerezza e la parte fortemente lucida e pronta a catturarne ogni mobile significato.

Quasi spartiacque a metà del libro e del viaggio, proprio nella sezione La mano scrive il suono, troviamo dei brevi  versi focalizzanti:

Tu eri distante
eri un buco
sulle mie guance

Sarà alla fine del percorso di quest’opera così ben orchestrata, che dopo esserci smarriti e ritrovati innumerevoli volte, una possibilità di risposta su a chi appartenga il Tu cui Marco Conti va rivolgendosi come a una stella polare (non nascondendo l’umano turbamento), andrà rintracciata nell’ultimo testo. La “fatamorgana” ambita e rincorsa è una promessa non fatta ma mantenuta, la guancia bucata dalla bellezza pare essere un sorriso innescato dalla Poesia, riconosciuta nel soffio/suono di cui la mano ha scritto.

Come lo sguardo cambia
nel corso del tempo
così ho visto il tempo
guardandomi nei tuoi occhi,
queste immagini in cui uno scaltro obiettivo
raddoppia di sguincio la mia faccia
senza conoscermi davvero
ma lunare nelle risaie di Lucedio
come se un altro specchio più grande
ci liberasse dalle domande non fatte
dalle risposte non avute.
Qui la terra sembra godersi il suo abbandono
con colori d’acqua e verdi
violati appena dai pali
e dagli alti trampoli degli aironi.
Si direbbe un posto
dove ogni cosa è fatta
per la sua consumazione
e le parole non guardano lontano
ma sostano fra i canali
tenaci come le porte
di queste grange disabitate.
La sera la strada sale verso le montagne
i cipressi rinchiudono le voci degli uccelli.
L’ultima cosa è questo soffio
questa guancia
bucata dalla bellezza.

dalla sequenza di  “Viaggio a Cuma

nota di lettura Doris Emilia Bragagnini

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Marco Conti ha pubblicato i libri di poesia Stellato chiaro (Crocetti, 1986), L’ospitalità dell’aria (Campanotto, 1999), Via delle fabbriche (Viennepierre, 2004 in “Biella e il Biellese terra narrata”) e La mano scrive il suono (Archinto, 2021). Ha curato e tradotto l’antologia poetica di Joyce Mansour, Blu come il deserto (Terra d’Ulivi, 2017), opera che presentò per la prima volta in Italia sul mensile Poesia (n. 127, Crocetti, 1999); della stessa autrice ha tradotto il libro Mai e poi mai (La clessidra, 2016); ha curato inoltre la raccolta postuma e inedita di Corrado Bianchetto Songia, La chiave a scheletro, (Mef, Firenze, 2007).

In Romania ha pubblicato Scris pe pereţi-Scritto sui muri (Eikon, 2021), una plaquette di versi editi e inediti tradotta da Alexandru Macadan, mentre altri suoi testi sono usciti su varie riviste romene e moldave e nell’antologia La prezentul continuu. Patruzeci de poeţi  italieni contemporani – vol. I (Cosmopoli, 2021). Come critico si è occupato della poesia di Samuel Beckett (AA.VV. Fallire ancora, fallire meglio, Joker 2009), Pierre Reverdy, Augusto Blotto (Il clamoroso non incominciar neppure, AA.VV. Edizioni dell’Orso, 2010),  Milo De Angelis, Amelia Rosselli, Alda Merini, Eliza Macadan, Eric Sarner.

Nel 2017 ha pubblicato Breviario di dissidenza (Mimesis), un pamphlet di critica culturale. Giornalista professionista, insegna oggi Scrittura creativa. Dai suoi corsi presso Upb è nato il libro di racconti, di cui è curatore, Mia madre era figlia unica (Joker, 2008). Vive nel Biellese.

Suo sito dedicato alla letteratura (poesia, racconti, recensioni, archivi, saggistica, scrittura ceativa): le muse inquiete”

Il sarto di Ulm  La rivista bimestrale di poesia “Il sarto di Ulmed. Macabor, gli ha dedicato la copertina del numero 12, con un brano critico di Marta Celio: Marco Conti. Chiudendo gli occhi il poeta con la mano scrive il suono.

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Doris Emilia Bragagnini nata in provincia di Udine dove risiede è presente in riviste letterarie cartacee e online, antologie e poemetti collettivi, in accreditati lit-blog tra cui “Neobar” e “Giardino dei poeti” dove collabora sostenendo la divulgazione poetica. Suoi testi sono stati tradotti in inglese e spagnolo. Il suo libro d’esordio è “Oltreverso” (Zona 2012), seguito da “Claustrofonia” (Ladolfi ed. 2018). Il suo blog qui 


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