Daniele Santoro, “Sulla strada per Leobschütz” – Nota critica di Franco Bruno Vitolo

Copertina(2)

Una cruda e dolente Spoon River della Shoah

 

Un dramma abissale, raccontato in modo minimale, cinematograficamente teatrale.

Ci si scusi il gioco di rime e di parole, ma crediamo che ci voglia almeno un tris di incisivi aggettivi per definire l’incisiva profondità e l’originalità dello stile di questa opera seconda di Daniele Santoro [Sulla strada per Leobschütz, La Vita Felice, Milano, 2012], che dopo le raffinatezze ribelli simboliche ed intimistiche del Diario del Disertore alle Termopili, si cimenta in confezione personale con una vicenda globale come la Shoah, su cui negli ultimi anni si è scatenato un diluvio di pensieri, parole, opere e sempre meno omissioni.

Per questo è una sfida, che non esitiamo a definire vincente.

La vittoria nasce dal fatto che in questa raccolta poetica monotematica Santoro ha cercato non di andare oltre nei contenuti, ma di qualificare con lo stile poetico la potenza e l’incisività della narrazione.

Trentacinque (come gli anni di Dante nel momento in cui entra nell’Inferno) sono le poesie, tutte brevi, collegate tra loro in modo che dal puzzle delle immagini rappresentate emerga un unico racconto. Nessuna comincia con la lettera maiuscola, alcune non hanno titolo e si incastrano nella lirica precedente. Come a dire che è unica la storia, non comincia qui e non finisce qui; e da quest’unica macrostoria sono stati estrapolati frammenti provenienti chiaramente da un’unica matrice.

Essendo rappresentati dei fatti, all’interno dei quali si intuiscono gli stati d’animo, occorreva un’angolazione coerente, per mantenere unità al lavoro. La voce esterna del poeta sarebbe sembrata troppo costruita a tavolino, ed allora cosa di meglio che un narratore interno che volta per volta focalizzasse episodi, volti, situazioni, in rapida successione, ma non perdesse la dimensione del vissuto immediato e non rinunciasse a fremiti di orrore, pur se appena accennati? Insomma, fatta salva la differenza del coinvolgimento personale, una specie di Spoon river della Shoah.  Se già è interessante l’artificio così concepito, diventa intrigante il fatto che il narratore interno, o se vogliamo l’occhio interno al lager, più che con il pathos dello scandalizzato a posteriori le guarda con l’occhio sgranato dello spettatore quotidianamente abituato a simili spettacoli e/o con l’attenzione del cronista o dell’operatore a cui è concesso di poter girare con una telecamera tra le mani.

Questo causa, spiega e giustifica la tendenziale sobrietà del racconto, a volte quasi cinico, ricco di parole più denotate che connotate, da cui comunque non mancano di far capolino dei versi  e delle espressioni che esprimono e stimolano profonda partecipazione emotiva.

Un’opera fredda, allora? Tutt’altro!

Il pane senza sale della Toscana è forse senza sapore e, soprattutto, non è tale da esaltare al massimo il sapore del companatico? Fuor di metafora gastronomica, la cruda violenza dei fatti narrati e delle situazioni, dalle uccisioni a freddo alle esecuzioni pubbliche, dalle selezioni di massa all’incattivimento dei prigionieri, dalle gassazioni a ritmo industriale, fino alla paura compagna delle ore, assume ancora più evidenza a contatto con un linguaggio sobriamente narrativo. Così, se proveremo a rileggere il testo dopo averne afferrato l’essenza, ci renderemo conto di che lacrime grondi e di che sangue, di quale disumanità abbia invaso gli umani, di quale offesa alla dignità sia stata perpetrata in uno dei più eclatanti inferni della storia. E ci sentiremo coinvolti fin nel profondo. E ci indigneremo.

Qui Santoro è molto bravo ad accentuare la forza delle immagini con la teatralità della struttura e della successione. Non a caso la prima scena è musicale, quasi una sigla ad apertura di sipario. Non a caso il primo personaggio che appare, a sipario aperto, è il terribile Mengele, il Dottor Morte, che fa suonare la beffarda orchestra, che realmente accoglieva le schiere di deportati, e poi alla discesa del treno va alla ricerca dei gemelli sui cui esercitare le sue spietate ricerche su cavie umane. Non a caso il finale è quasi una scena madre, di quelle che chiudono degnamente uno spettacolo teatrale: quella pazza che sulla strada per Leobschütz, appoggiata all’albero, assiste al passaggio della carovana dei morti con in braccio un bambino: spettatori spettrali, la mamma e il bambino, e forse anche loro situati oltre il confine della vita.  Non a caso questo passaggio è anticipato da scene della tremenda Marcia della morte, quel disperato tentativo di trasferimento dai campi che i nazisti fecero per eludere l’arrivo dei nemici e che si trasformò in uno spaventoso massacro in mezzo alla neve. Non a caso qua e là compaiono altre figure di esseri descritti come matti, con la coscienza che la follia è pur sempre un bene rifugio, nella vita individuale e, perché no, anche nella comunicazione spettacolare di un messaggio.

All’interno di queste descrizioni, Santoro riesce ad innestare delle pennellate che sono delle vere e proprie pugnalate al cuore. Quel capoplotone grazie al quale i massacri filano lisci che è una meraviglia…quel soldato che si fuma con calma la sigaretta in attesa che si spoglino i deportati da giustiziare…quel tifo debellato con l’esecuzione di tutti i malati… quel teschio piegato a manico di ombrello… E qua e là ecco dei versi e delle situazioni  che ti svangano l’anima, come quel  figlio che guarda con astio il padre rivale di cibo, come quell’assordante crepitio dei brividi, o quelle pupille spente che prima erano vulcani lucenti della vita, o quelle gambe cacaglianti del giustiziando, o quel  deportato in attesa con i suoi di essere gasato che, fissando con coraggio lo spioncino dietro il quale era nascosta la guardia chiuse la risata all’assassino, o quell’uomo inebetito che sale sul camion e saluta per l’ultima volta il figlio da lontano. O ancora, quella madre che ripulisce i piedi del suo bambino prima di avviarsi con lui, mano per mano, verso la morte…

Tutto questo è innestato in una versificazione sempre rigorosa e con una ricerca accurata delle parole giuste, oltre che con riferimenti specifici che risultano da ricerche storiche mirate. Ma come, si fanno ricerche storiche per fare poesia? Giustamente se lo chiede il grande Giuseppe Conte nella prestigiosa e qualificata prefazione del libro, sciogliendo il dilemma a vantaggio della nobiltà del messaggio e della vitale dimensione poetica, derivante dall’impianto complessivo ed anche da una scelta alta di contenuti.

Siamo d’accordo con lui, ma, comparando l’intuizione letteraria con l’espressione partorita, aggiungiamo che secondo noi era inevitabile, perché Santoro non intendeva produrre poesia lirica o ermetica o ombelicale o compiaciuta di se stessa e della padronanza del verso. Santoro intendeva anche farsi poeta vate, cantore epico di una tragedia collettiva, con lo spirito di un nobile cantastorie popolare. Pur nascendo da una cultura raffinata e devotissima alle finezze del linguaggio, la sua poesia ha un’immediatezza concreta, che grazie anche all’alone poetico che si crea progressivamente può parlare veramente a tutti, dai più anziani ed esigenti letterati al più diffidente degli studenti.

Questo è a nostro parere il merito principale della raccolta, unito alla forza del messaggio di libertà e di dignità che emana dall’insieme e che è dichiarato nei versi danteschi sul detenuto che libertà va cercando. Proprio questo messaggio trasforma la lunga marcia della morte nell’auspicio di una marcia verso la vita, verso un mondo dove i vulcani lucenti della vita possano emettere liberamente tutto lo splendore del loro calore, magari nella libera e “sorpresa” contemplazione del pieno delle stelle, a contatto gaudente con la libera energia dell’universo, assaporata finalmente nella sua infinita potenza costruttiva, a beneficio, e non a maleficio dell’essere umano. 

 

Franco Bruno Vitolo

 


2 risposte a "Daniele Santoro, “Sulla strada per Leobschütz” – Nota critica di Franco Bruno Vitolo"

  1. Una raccolta “coraggiosa”. Una sfida, come dice Franco Bruno Vitolo, visto quanto si è scritto sulla Shoah. Molto interessante la funzione di un narratore interno che guarda agli eventi a posteriori stabilendo dei collegamenti con il presente. Sullo stesso argomento segnalo la raccolta di Nina Maroccolo “Illacrimata”: http://neobar.wordpress.com/2012/01/27/nina-maroccolo-il-processo-ad-adolf-eichmann-illacrimata/

    Due poesie tratte da “Sulla strada per Leobschütz”:
    http://www.larecherche.it/testo_poesia_settimanale.asp?Id=142&Tabella=Poesia_settimanale

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  2. Grazie, Abele Longo,
    della gentile ospitalità sul suo “Neobar”; sono davvero molto lieto. Grazie anche del bel commento e delle due segnalazioni riportate in pedice.
    Cordialmente. D.S.

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