Roberta De Luca: Antropocene 3/ Ammutinamento

Antropocene 3/Ammutinamento

“Liberarsi, tutte lo vorrebbero, ma non sanno come, dopo tanti anni che comandiamo noi”

Questa è la storia di un ammutinamento di proporzioni apocalittiche, ed è raccontata da Primo Levi nella raccolta fantaecologica Vizio di forma. Clotilde, una ragazza sensibile e solitaria, parla con le piante, ne conosce i segreti, e riceve un giorno da un ciliegio una confidenza sconvolgente. Le piante stanno decidendo di ribellarsi all’uomo. Non vogliono più fare fiori -sono una lusinga che lui non merita- produrre frutti -dono assolutamente sprecato- e vorrebbero sradicarsi, partire, tornare libere, ma soprattutto non intendono più purificare l’aria. Si profila dunque un rifiuto ad effettuare la fotosintesi clorofilliana, cioè a dire la fine della vita sulla Terra. Il racconto, piacevolissimo nella lettura, spaventoso nei contenuti, si pone, nella produzione leviana, sul polo opposto a Carbonio, l’ultimo racconto de Il sistema periodico. E’ vero che l’opera sugli elementi chimici è del 1975 e Vizio di forma è del 1971, ma Carbonio è stato concepito molto prima, è uno dei primi racconti cui Levi ha pensato, già dai tempi dell’esperienza di Auschwitz. Tuttavia, come osserva Francesco Cassata nel suo saggio Fantascienza? Settima Lezione Primo Levi, Einaudi editore, l’effettiva stesura coincide con gli anni di Vizio di forma, tra il 1968 e il 1970, e questo non è casuale. Il collegamento tra i due racconti è inevitabile, e va stabilito rovesciandone la posizione cronologica di pubblicazione, così come è avvenuto nell’itinerario mentale dell’autore. Carbonio descrive i meccanismi della fotosintesi clorofilliana, Ammutinamento ne profetizza la fine; in Ammutinamento si verifica una degenerazione entropica, laddove in Carbonio la natura contrasta da sola il “brutto potere”, ripristinando di volta in volta un equilibrio che, ora, colpevole l’uomo, rischia di perdersi per sempre. Lo scenario prefigurato da Levi è, ovviamente, una fiction, ma ricade in un contesto di crescente preoccupazione per le sorti del pianeta e rappresenta l’ultimo stadio di un’emergenza ecologica. L’uomo sta modificando la natura, senza rendersi conto di non possedere i segreti per ricostruire tutto ciò che distrugge. Levi afferma infatti che l’uomo-fabbro, nonostante i suoi sforzi e la creazione di alcune sintesi, non è riuscito a competere con la natura su questo piano, cioè non si è sforzato di attingere dall’anidride carbonica dell’aria il carbonio. Non ne ha avuto bisogno, almeno finora. Se le piante smettessero di svolgere il loro compito, noi ci troveremmo nella difficile situazione di dover scoprire l’unica via per cui l’energia del sole si fa utilizzabile chimicamente.  Forse è meglio allora acquisire la sensibilità di Clotilde, la sua capacità di ascoltare il grido di dolore della Terra – facoltà che è alla nostra portata – invece di ritrovarci a sperimentare i nostri limiti in un’ardua gara con la natura.

Ammutinamento

A Mario Rigoni Stern

Sono ormai dieci anni che i Farago coltivano il terreno contiguo al nostro giardino, e ne è nata una rudimentale amicizia, sommaria ed inarticolata, come sogliono essere quelle che si stabiliscono al di sopra di uno steccato o da riva a riva. I Farago sono orticultori da sempre, e noi proviamo per loro invidia ed ammirazione; loro sanno sempre fare la cosa giusta nel modo giusto e nel momento giusto, mentre noi, che siamo dei dilettanti e degli inurbati, ci nutriamo di errori. Noi seguiamo devotamente i loro consigli, quelli richiesti e quegli altri, che il padre Farago ci grida attraverso la recinzione quando ci vede commettere qualche enormità, o quando i frutti delle nostre enormità gridano al cielo; eppure, nonostante questa nostra umiltà e docilità, i nostri quattro palmi di terra sono pieni di erbaccia e di formicai, mentre i loro orti, che non sono meno di due ettari, sono puliti, ordinati e prosperosi. «Ci va occhio», dicono i Farago, oppure «ci va la mano». Salvo Clotilde, non vengono volentieri a vedere da vicino quello che noi facciamo: forse non vogliono responsabilità, o si rendono conto che una maggiore intimità e confidenza fra loro e noi non è possibile né desiderabile; o forse ancora, anzi probabilmente, non ci vogliono insegnare troppe cose: che, non si sa mai, non ci venisse in mente un giorno o l’altro di rubargli il mestiere. Consigli sì, ma alla lontana. Clotilde è diversa. L’abbiamo vista crescere di estate in estate come un pioppo, e adesso ha undici anni. È bruna, snella, ha sempre i capelli che le cadono sugli occhi, ed è piena di mistero come tutte le adolescenti; ma era misteriosa anche prima, quando era rotonda, alta due spanne, e sporca di terra fino agli occhi, e secondo ogni apparenza imparava a parlare e a camminare dal cielo direttamente, o forse dalla terra stessa, con cui aveva un rapporto evidente ma indecifrabile. A quel tempo la vedevamo spesso sdraiata fra i solchi, sul suolo umido e tiepido smosso di recente: sorrideva al cielo con gli occhi chiusi, intenta al palpito delle farfalle che si posavano su di lei come su un fiore, immobile per non spaventarle via. Prendeva in mano i grilli e i ragni, senza ribrezzo e senza fargli male, li carezzava col dito bruno come si fa con gli animali domestici, poi li riposava in terra: – Vai, bestiolina, vai per la tua strada. Adesso che è cresciuta, anche lei ci dà consigli e spiegazioni, ma di altra natura. Mi ha spiegato che il convolvolo è gentile ma pigro: a lasciarlo fare, invade i campi e li soffoca, però non per fare il male come la gramigna, solo è troppo pigro per crescere diritto. – Vedi come fa? Pianta anche lui la radice in terra, ma non tanto profondo, perché non ha voglia di faticare e non è molto forte. Poi si divide in fili, e ogni filo corre basso a cercarsi da mangiare, e non si incrociano mai: non sono mica stupidi, si mettono d’accordo prima, io a levante, tu a ponente. Fanno i fiori, che sono abbastanza belli e perfino un po’ profumati, e poi queste palline, le vedi? perché pensano anche loro all’avvenire. Per la gramigna, invece, non ha pietà: – È inutile che la tagli a pezzi con la zappa: tanto poi ogni pezzo ricresce, come i draghi delle favole. Anzi, è proprio un drago: se guardi bene, vedi i denti, le unghie e le scaglie. Ammazza le altre piante, e lei non muore mai, perché sta sottoterra; quello che vedi fuori è niente, quelle foglioline sottili dall’aria innocente, che sembrano quasi erba. Ma più scavi e più trovi, e se scavi profondo trovi uno scheletro tutto nero e nodoso, duro come il ferro e vecchio non so quanto: ecco, quello è la gramigna. Ci passano su le mucche e la calpestano e non muore: se la seppellisci in una tomba di pietra, spacca la pietra e si fa la via per uscire. L’unica è il fuoco. Io con la gramigna non ci parlo. Le ho chiesto se parla con le altre piante, e mi ha detto che certamente. Anche suo padre e sua madre, ma lei meglio di loro: non è proprio un parlare con la bocca, come noi, ma è chiaro che le piante fanno dei segni e delle smorfie, quando vogliono qualche cosa, e capiscono i nostri: però bisogna non perdere la pazienza e cercare di farsi capire, perché in generale le piante sono molto lente, sia a capire, sia a esprimersi, sia a muoversi. -Vedi questo? -mi ha detto, indicando uno dei nostri limoni: – si lamenta, è un pezzo che si lamenta, e tu se non capisci non te ne accorgi, e intanto lui soffre. – Si lamenta di che cosa? L’acqua non gli manca, e lo trattiamo preciso come gli altri. – Non so, non è sempre facile capire. Vedi che da questa parte ha tutte le foglie accartocciate: è da questa parte che qualcosa non va. Forse urta con le radici contro una roccia: vedi che, sempre dalla stessa parte, fa una brutta ruga nel tronco. Secondo Clotilde, tutto quello che cresce dalla terra, ed ha foglie verdi, è «gente come noi», con cui si trova modo di andare d’accordo; appunto per questo non si deve tenere piante e fiori nei vasi, perché è come chiudere le bestie in gabbia: diventano o stupide o cattive, insomma non sono più le stesse, ed è un egoismo nostro metterle così allo stretto solo per il piacere di guardarle. La gramigna, appunto, fa eccezione, perché non viene dalla terra, ma da sottoterra, e questo è il regno dei tesori, dei draghi e dei morti. Nella sua opinione, il sottosuolo è un paese complicato come il nostro, solo è buio mentre qui è luce; ci sono caverne, gallerie, ruscelli, fiumi e laghi, e in più ci sono le vene dei metalli, che sono tutti velenosi e malefici tranne il ferro, che entro certi limiti è amico dell’uomo. Ci sono anche tesori: alcuni nascosti dagli uomini in tempi remoti, altri che giacciono laggiù da sempre, oro e diamanti. Qui abitano i morti, ma di essi Clotilde non ama parlare. Il mese scorso, una escavatrice era al lavoro nella proprietà che confina con la loro: Clotilde assistette pallida e affascinata all’opera poderosa della macchina finché il livello dello scavo non giunse ai tre metri, poi scomparve per vari giorni, e tornò solo quando la macchina se ne fu andata e si vide che nel gran buco non c’era che terra e pietra, pozze d’acqua ferma, e qualche radice denudata. Mi ha anche raccontato che non tutte le piante sono d’accordo. Ce ne sono di addomesticate, come le mucche e le galline, che non saprebbero fare a meno dell’uomo, ma ce ne sono altre che protestano, cercano di scappare, e qualche volta ci riescono. Se non ci stai attento, inselvatichiscono e non danno più frutto, o lo danno come piace a loro e non come piace a noi: aspro, duro, tutto nocciolo. Una pianta, se non è tutta addomesticata, ha nostalgia, specie se sta in vicinanza di un bosco selvatico. Vorrebbe tornare al bosco, e che solo le api si curassero di fecondarla, e gli uccelli e il vento di disseminarla. Mi ha mostrato i peschi del loro frutteto, ed era proprio come lei diceva, gli alberi più vicini alla recinzione tendevano i rami oltre, come braccia.

– Vieni con me: ti devo mostrare una cosa -. Mi condusse su per la collina, in mezzo a un bosco che quasi nessuno conosce, tanto è fitto di sterpi. È poi come difeso da una cornice di vecchie terrazze in sfacelo, e queste sono ricoperte da una sorta di edera spinosa, di cui non conosco il nome. È bella a vedersi, con foglie a ferro di lancia, lucide, di un verde squillante macchiettato di bianco; ma il fusto, i rametti, e perfino il rovescio delle foglie stesse, sono irti di spine adunche, barbate come teste di frecce: se solo sfiorano la carne, vi penetrano e portano via il pezzo. Strada facendo, e mentre io avevo appena fiato per governare i miei passi e dar voce a qualche sillaba di assenso, Clotilde parlava. Mi diceva di avere saputo poco prima una notizia importante, e di averla saputa da un rosmarino, che è poi un tipo speciale, amico dell’uomo ma a distanza, un po’ come i gatti; gli piace fare da sé, e quel saporino aromatico che va tanto bene per l’arrosto è una sua invenzione: agli uomini piace, invece gli insetti lo trovano amaro. È un repellente, insomma, che lui ha inventato mille e mille anni fa, quando l’uomo non c’era ancora; e infatti non vedrai mai un rosmarino smangiato dai bruchi o dalle lumache. Anche le foglie a forma di ago sono una bella invenzione, ma non del rosmarino. Le hanno inventate i pini e gli abeti, ancora molto tempo prima: sono una buona difesa, perché le bestioline che mangiano le foglie incominciano sempre dalla punta, e se la trovano legnosa ed acuminata perdono subito il coraggio. Il rosmarino le aveva fatto dei gesti per farle capire che doveva andare in quel bosco, a una certa distanza e in una certa direzione, e che avrebbe trovato una cosa importante: lei c’era già andata pochi giorni avanti, ed era proprio vero, e voleva farlo vedere anche a me. Soltanto, le era un po’ dispiaciuto che il rosmarino avesse fatto la spia. Mi insegnò un sentiero mezzo sepolto dai rovi, per cui riuscimmo a penetrare nel bosco senza troppi graffi: ed ecco, nel centro del bosco c’era una piccola radura circolare che non c’era mai stata prima. In quel punto, il terreno era quasi piano, e il suolo appariva liscio, battuto, senza un solo filo d’erba e senza un sasso. Tre o quattro sassi tuttavia c’erano, a un metro circa dalla periferia, e Clotilde mi disse che li aveva messi lei come riferimenti, per verificare quello che il rosmarino le aveva fatto capire: e cioè che quella era una scuola di alberi, un posto segreto dove gli alberi si insegnano l’un l’altro a camminare, in odio agli uomini e a loro insaputa. Mi condusse per mano (ha una mano poco infantile, ruvida e forte) lungo il cerchio, e mi fece vedere molte piccole cose, impercettibili: che, intorno a ogni tronco, il terreno era smosso, screpolato e come costipato verso l’esterno, e invece depresso verso l’interno; che tutti i tronchi pendevano un poco all’infuori, e anche i rampicanti correvano radialmente verso l’esterno. Beninteso, io non sono affatto sicuro che segni simili non si ravvisino anche altrove, in altre radure, o forse in tutte, e che non abbiano un significato diverso, o magari non ne abbiano alcuno: ma Clotilde era piena di eccitazione. – Ce ne sono di intelligenti e di stupide, di pigre e di svelte, e anche le più furbe non è che arrivino tanto lontano. Ma questo qui, per esempio, – e mi indicò un ginepro, è parecchio che lo tengo d’occhio, e non mi fido di lui -. Quel ginepro, mi disse, si era spostato di almeno un metro in quattro giorni. Aveva trovato il modo giusto, a poco a poco lasciava morire tutte le radici da un lato e rinforzava quelle dall’altro, e voleva che tutti facessero come lui. Era ambizioso e paziente: tutte le piante sono pazienti, questa è la loro forza; ma appunto, lui era anche ambizioso, ed era stato uno dei primi a capire che una pianta che si sposti può conquistare un paese e liberarsi dall’uomo. – Liberarsi, tutte lo vorrebbero, ma non sanno come, dopo tanti anni che comandiamo noi. Alcuni alberi, come gli olivi, si sono rassegnati da secoli, però si vergognano, e si vede bene dal modo come crescono, tutti storti e disperati. Altri, come i peschi e i mandorli, si sono arresi e fanno i frutti, ma, lo sai anche tu, appena possono ritornano selvaggi. Altri ancora non so: i castagni e le querce è difficile capire cosa vogliono; forse sono troppo vecchi e troppo di legno, e ormai non vogliono più niente, come succede ai vecchi: solo che dopo l’estate venga l’inverno, e dopo l’inverno l’estate. C’era poi un ciliegio selvatico che parlava. Non era che parlasse in italiano, ma era come quando si fa conversazione con gli olandesi che vengono al mare di luglio, che insomma non si capisce parola per parola, ma dai gesti e dall’intonazione uno finisce col rendersi conto abbastanza bene di quel che vogliono dire. Quel ciliegio parlava col fruscio delle fronde, che si udiva accostando l’orecchio al tronco, e diceva cose su cui Clotilde non era d’accordo: che non si devono fare fiori, perché sono una lusinga all’uomo, né frutti, che sono uno spreco e un dono non dovuto. Bisogna combattere l’uomo, non purificare più l’aria per lui, sradicarsi e partire, anche a costo di morire o di ritornare selvaggi. Accostai anch’io l’orecchio al tronco, ma non colsi che un mormorio indistinto, benché forse un po’ più sonoro di quello che producevano le altre piante. Si era ormai fatto buio, e non c’era luna. I lumi del paese e della spiaggia ci davano solo un’idea vaga della direzione che avremmo dovuto seguire per discendere: in breve ci trovammo malamente intrigati nei rovi e nei terrazzi in rovina. Bisognava saltare giù alla cieca dall’uno all’altro, cercando d’indovinare nel buio crescente se avremmo preso terra su sassi, o su pini, o su suolo consolidato. Dopo un’ora di discesa eravamo entrambi stanchi, scorticati e inquieti, e i lumi in basso erano lontani come prima. Si udì a un tratto un cane abbaiare. Ci fermammo: veniva proprio verso di noi, galoppando orizzontalmente lungo una delle terrazze. Poteva essere un bene o un male: dalla voce, non doveva essere un cane molto grosso, però abbaiava con sdegno e con tenacia, fin quando gli mancava il fiato, e allora lo si sentiva aspirare l’aria con un corto rantolo convulso. In breve fu a pochi metri sotto di noi, e fu chiaro che non abbaiava per capriccio, ma per dovere: non intendeva lasciarci entrare nel suo territorio. Clotilde gli chiese scusa per l’invasione, e gli spiegò che avevamo perso la strada e non volevamo altro che andarcene; perciò, lui faceva bene ad abbaiare, era il suo mestiere, ma se ci avesse insegnato la strada che portava a casa sua avrebbe fatto meglio, e non avrebbe perso tempo lui e neanche noi. Parlava con voce così tranquilla e persuasiva che il cane si quietò subito: lo intravedevamo sotto di noi come una vaga chiazza bianca e nera. Scendemmo di pochi passi, e sentimmo sotto i piedi la durezza elastica della terra battuta. Il cane si incamminò a mezza costa verso destra, uggiolava ogni tanto, e si fermava a vedere se lo seguivamo. Dopo un quarto d’ora arrivammo cosi alla casa del cane, accolti da un tremulo coro di belati caprini: di li, nonostante l’oscurità, trovammo facilmente un viottolo ben segnato che scendeva al paese.


4 risposte a "Roberta De Luca: Antropocene 3/ Ammutinamento"

  1. ‘Secondo Clotilde, tutto quello che cresce dalla terra, ed ha foglie verdi, è «gente come noi», con cui si trova modo di andare d’accordo; appunto per questo non si deve tenere piante e fiori nei vasi, perché è come chiudere le bestie in gabbia: diventano o stupide o cattive, insomma non sono più le stesse, ed è un egoismo nostro metterle così allo stretto solo per il piacere di guardarle.’
    Gran bel racconto e profonde verità. E la la sensibilità di Clotilde, come dice Roberta, “la sua capacità di ascoltare il grido di dolore della Terra”, va estesa anche agli esseri umani, agli altri «gente come noi». Inevitabile non pensare all’esperienza di Levi nel lager e il ripetersi della Storia che innalza muri, rafforza frontiere, mette e vuole gli altri in un comodo “contenitore”.

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  2. Grazie Abele per il tuo commento. La riflessione finale è pienamente corrispondente. La fantascienza di Levi parte comunque da Auschwitz e su Auschwitz ritorna

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  3. grazie Roberta, dici bene: avere “la sensibilità di Clotilde” è prerequisito indispensabile. temo però che, generazione dopo generazione, tale sensibilità vada lentamente scomparendo per lasciare il posto a una sorta di sapiente ignoranza.
    : )
    “ammutinamento” è forse il racconto più intenso di Vizio di Forma. ogni volta che lo rileggo mi mette addosso un’inquietudine *inquietante*. l’orrore striscia sottotraccia, quasi invisibile ai nostri sensi oltre che difficile da interpretare (“Non so, non è sempre facile capire”), eppure a livello inconscio un misto di ansia e di paura aleggia nell’aria. la natura parla una lingua lenta e inesorabile, con la pazienza tipica di chi sa di avere dalla sua tutto il tempo del mondo, magari “non si capisce parola per parola, ma dai gesti e dall’intonazione uno finisce col rendersi conto abbastanza bene” di cosa vuole dire. ecco perché nonostante il mormorio sia “indistinto” e nonostante si sia “ormai fatto buio” (non c’è la luna) è ancora possibile trovare la strada. ammesso (e non concesso) che si abbia il coraggio di cercare “d’indovinare nel buio crescente” il lume della ragione.

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